IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA FU NEL 1958

IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA FU NEL 1958

I dettagli sono un po’ sfumati dal tempo, ma non lo scalone che saliva al primo piano della elementare Carducci, non mamma là sotto che mi guardava come se fossi stato condannato al carcere minorile, non le mie lacrime disperate. Addio, mamma. Era un edificio modernissimo, con piscina interna coperta, palestre e giardino. Nel mezzo del centro storico. Eravamo nel pieno del baby boom del dopoguerra. Tutto si concentrava lì. La borghesia della ricca Torino, i figli degli immigrati arrivati dal Veneto e dal Sud. Una delle primissime scuole a modellare con lo studio strati sociali diversissimi tra loro. F. era molto sovrappeso, calabrese, la faccia tonda e scura, non aveva cappotto, aspettava quello che sarebbe stato un inverno da neve alta. P. era del Polesine, suo padre lo accompagnava in bicicletta, seduto sulla canna. Aveva i geloni alle mani, a casa, una soffitta, niente riscaldamento. M. era altissimo e magrissimo, aveva un’ombra di baffi a 6 anni, d’estate lo mandavano alle colonie del Partito Comunista in Val d’Aosta. S. era un siciliano, minuscolo, così timido e spaesato e lontanissimo da noi che il primo giorno fece pipì nel calamaio. C’era il patronato, una sorta di welfare della scuola. Le maestre (ma c’erano ancora i maestri) raccoglievano le offerte per i compagni “disagiati”. Nella stessa classe c’era chi portava una busta ben gonfia e chi se ne stava con le braccia conserte a guardare. Visto oggi umiliante, ma non in quegli anni. Ci si alzava in piedi quando entrava in classe il maestro. Indossavamo una specie di polo blu di lana con grandi palle annodate al colletto che ci ballavano davanti. Mamma m’iscrisse alle lezioni di scherma, uno sport abbastanza nobile per le aspirazioni che aveva per me. La piscina no Giorgino, perché poi esci accaldato e ti ammali. Un paio di volte la settimana, a pianterreno, avevamo lezioni di canto. Religioso, naturalmente. Forse nessuno, pensavo, è più stonato di me nell’intero pianeta, ma ci andavo saltellando felice perché c’era una bambina con gli occhi azzurri e i capelli neri che mi piaceva moltissimo. Facevo finta di cantare e la guardavo. E la sera, prima di dormire, stressavo la mia sorellina Elisabetta raccontandole della ragazzina più bellissimissima del mondo. Ps. Quello nella foto sono io, a novembre, a piantare il mio bulbo di tulipano con il giardiniere della scuola. Il cappotto e l’orrendo cappello non li ricordo. I calzoni (mamma li comprava da Ruffatti) li ho tenuti corti all’inglese fino alla seconda media. Erano di vigogna scura, con due bottoncini all’altezza del ginocchio.