IN WHITE, BRET EASTON ELLIS CONTRO GLI STUPIDI MILLENNIALS DEL LIKE OR NOT

IN WHITE, BRET EASTON ELLIS CONTRO GLI STUPIDI MILLENNIALS DEL LIKE OR NOT

Non credo che qualcuno si stupisca di sapere che Bret Easton Ellis, autore diLessThan Zero, è depresso e scazzato, ansioso e cedevole alla rabbia, perché inseguito da chi gli chiede puntualmente del nuovo romanzo, a nove anni daImperialBedrooms. InWhite(Knopf), raccolta di divagazioni e saggi di prossima uscita per Einaudi, BEE risponde alla pressione degli editori avvisando che nessuno più aspetta laGreat AmericanNovel– come non attende più il grande disco e il grande film – e che lui aveva pure provato a cambiaremedia(tv e Internet) prima di passare la mano. E infatti. Qui scarta lafictione si misura in prosa con i meccanismi deisocial network, colpevoli di creare una falsa proiezione di noi stessi, spesa tra ipocrisia e ottimismo. BEE sostiene che è una forma per lui assai svilente diacting. Recitiamo, insomma. Whitenasce dal disgusto per questa grande mistificazione che porta a una piccola narrazione individuale, a unaLittleAmerican Novelsemmai, alla cura di un piccolobranddi noi stessi oltretutto semplificati nelle funzioni. BEE nota che parenti amici sconosciuti,Millennialsed exGenerationX, postano ovunque commenti trasudanti certezze nella tossicaattitudetipica deisocial network; ne consegue l’attacco feroce a chi esprime semplicemente un’opinione o una critica oppure abbia solo voglia di scherzare. BEE descrive l’oppressione che lo coglie in mezzo a una socialità infuriata e polarizzata la quale alla fine disintegra l’individuo che non recitaindigitale, che non traduce se stesso in poche parole su un piccolo schermo. Da che pulpito. Parla proprio BEE che, con una serie ditweetgiudicati al meglio ingenerosi, postati nel settembre 2012, aggredì le spoglie di David Foster Wallace. Twittò che era il più sopravvalutato scrittore della sua generazione, e il più pretenzioso. BEE, però, non fa ammenda, anzi si spiega con coerenza. Non postò contro lo scrittore, bensì contro i suoifans, e non gradì di essere triturato dalla logica dellike or not. Illike or notmostrerebbe lo stato infantile diMillennialse soci, impoveriti dalwebe incapaci di sopportare in testa, e nello stesso momento, due pensieri opposti. Ergo: queitweetinnescarono un processo a BEE, reo di invidia, malanimo, spocchia, ecc. ecc. Andò così. L’attacco al mito di San DFW, raccontato qui nel capitoloTweeting, nasce in queste ristrettezze comunicative. BEE vedeThe End of The Tour, il film su DFW tratto dalle conversazioni con David Lipsky, che escludono il DFW più interessante per BEE: ‘Lo stronzo geloso con un lato violento, il critico malevolo…’. Qui invece trionfa unfake out artist, la cui malizia eclissa una personalità complessa. Lo stesso DFW applaudito come un guru per il celebre discorsoQuesta è l’acqua(definito una ‘stronzata’ da BEE) assurge in vita al rango dihip motivational speakere cade vittima proprio del processo da cui più rifuggiva, quello di diventare un attore, il San DFW, che altro non può essere che buono. Ma quale scrittore può concedersi la bontà?, chiede l’autore diAmericanPsychoche non è mai riuscito a finireInfinite Jest. BEE si appella all’autorità di Joan Didion: inWhite Album(1978) scrisse che un carattere della letteratura americana odierna risiede nel desiderio di essere bambini per sempre.We tell us storiesinorder to live, sostiene Didion. E specialmente oggi, aggiunge BEE, in cui siamo tutti scrittori, poiché in versionesocialcrediamo di avere qualcosa da dire. Sulwebdilaga l’atteggiamento indignato di chi pretende di essere offeso dalla realtà, chiede le scuse del mondo, e intanto che diffonde il suo privato dramma promuove la merce del suo semplificato io. Sì, a fronte di questa conclusione, non resta – come minimo – che il malumore.