QUELLA INSAZIABILE VOGLIA DI NARRAZIONE

È probabile che la recente crisi di governo italiana, con tutti gli strascichi che si porta dietro ancora in questi giorni, sia stata in un certo senso l’apoteosi della voglia di racconto e di narratività che ormai dilaga. Perché è indubbio che il raccontare non sia soltanto della letteratura e del cinema. Si definiscono «storie» quelle che ormai dilagano su Instagram, si chiamano storie i rapporti d’amore, anche quando magari sono tormentati e non sono così facilmente raccontabili. Sono storie le vicende umane e personali di ognuno di noi; e vanno narrate come storie le vicende di cronaca, il gossip, le glorie e le cadute di aziende, le carriere dei grandi manager. C’è più storia in questo nostro presente che dentro la Storia vera e propria, quella con la «S» maiuscola, quella che si studia a scuola. Come le nostre vite siano diventate letteratura è facile capirlo. È un po’ il principio dei vasi comunicanti. Se si genera un contenitore, quel contenitore verrà riempito. Se un tempo soltanto i libri raccontavano storie (e i libri erano pochi) e lo facevano di tanto in tanto i giornali (e i giornali erano più per le notizie che per gli articoli raccontati). E se un tempo i canali televisivi avevano meno ore di programmazione, finiva che c’era meno spazio per l’immaginazione. Non c’era la possibilità di organizzarsi nell’imbastire storie da mettere in pagina, da mandare in diretta. Durante l’ultima crisi di governo italiana, le maratone politiche di Enrico Mentana sono diventate un vero e proprio genere di racconto. Ma se stai cinque ore in diretta, quelle cinque ore devono prendere un aspetto inedito. Devono avere personaggi, eventi e colpi di scena. Ed ecco che l’espressione «ho una grande storia» diventa il punto di partenza per coinvolgere i lettori di libri e di giornali, gli spettatori televisivi e il pubblico di una conferenza, ma anche i commensali di una cena. Perché la storia rende comprensibile e attraente quello che si ha da dire. Ma è davvero così? Quello che ci accade ha necessariamente un filo coerente? E tutto deve sempre ridursi a una narrazione da cui trarne un libro, un film, un certo numero di articoli per un giornale? È vero, ma solo in parte. Accadono cose, e si generano vicende che non sono una storia e che non hanno bisogno di essere raccontate come fosse tutto logico, come ci fosse un calcolo, una sequenza riconoscibile. Per farlo dobbiamo eliminare l’elemento della casualità in tutti gli eventi che viviamo. L’amore, per andare su un argomento classico, vuole una narrazione per essere compreso. Molte volte l’amore è inspiegabile, è privo di ragione, a volte persino di una buona ragione. E la politica? La politica si è fatta «soap opera», come dice qualcuno. O una partita di scacchi raccontata giorno per giorno, dove i politici sono sia i giocatori che i pezzi della scacchiera. E dove tutto deve avere una nitidezza, una imprevedibilità che sia però figlia della strategia e della logica. Se Salvini fa cadere il governo italiano si sarà fatto i suoi calcoli, se Matteo Renzi ha cambiato idea, se Boris Johnson insiste sulla Hard Brexit… E via dicendo. Alcune cose sono vere, altre sono verosimili, altre sono snodi narrativi necessari ma del tutto inventati nel nome del ritmo, e della comprensibilità. Anche perché i contenitori informativi vanno riempiti. Da cosa dipende? Intanto dipende dal fatto che la narratività ha invaso tutti gli spazi della nostra vita. Cinquant’anni fa esistevano gli sceneggiati, non ancora le serie. E gli sceneggiati erano pochi, non si ripetevano con nuove puntate, e andavano in onda una volta alla settimana. La stessa cosa accadeva con i film, programmati con molta parsimonia, e con il teatro. Non c’erano i talk. La gente comune non appariva in televisione, non si raccontava. In questi cinquant’anni abbiamo imparato a raccontare. Oggi i canali digitali sono infiniti, le storie iniziano quando vuoi tu, puoi riportarle all’inizio e vedertele tutte, una di seguito all’altra. E quando non guardi i film e le serie, finisce che ti metti ad ascoltare persone che raccontano se stesse. I giornali vendono meno, è vero, ma è del tutto ovvio che il web e soprattutto i social network hanno amplificato tutto elevando a potenza. Il risultato è straniante e ha un lato positivo. Gli editori, ma anche i produttori di serie e di film, sanno che si scrivono libri meno ingenui e sceneggiature di migliore qualità. Perché, come dice il proverbio: guardando si impara. Il lato negativo è che non siamo più capaci di leggere le cesure, le intermittenze. Siamo dentro flussi narrativi, e ne siamo dipendenti, ma non riusciamo più a concepire che le cose della vita si spezzettano, prendono direzioni inaspettate, non hanno continuità, vanno avanti e indietro senza una logica apparente. Ed è forse questa la cosa che ci manca davvero di più: pensare al mondo come un insieme affascinante di frammenti che però non devono stare per forza assieme.