TODD PHILLIPS. DALLE NOTTI DA LEONI AL LEONE D’ORO

È Todd Philipps con “The Joker” il conquistatore della roccaforte di Venezia76. E c’era da aspettarselo, dopo la standing ovation di otto minuti ricevuta dall’attore protagonista Joaquin Phoenix subito dopo la proiezione stampa. E per la serie “la fortuna premia gli ottimisti”, occorre anche ricordare che non più tardi di qualche settimana fa, il regista già rivelava il possibile successo che la pellicola avrebbe avuto, annunciando la nuova direzione presa dalla Warner Bros nel decidere di distribuire un prodotto azzardato come un cinecomic, ovvero indirizzare questa categoria di film verso un’autorialità più apprezzata e stimata. A oggi si può dire ci aveva visto lungo, poiché a distanza di poco più di un mese da queste dichiarazioni abbiamo avuto modo di vederlo con il premio fra le mani e gli occhi traboccanti di entusiasmo, mentre dedicava alla giuria della Mostra i suoi doppi ringraziamenti, per il riconoscimento ricevuto, ma anche per essere riuscita finalmente a uscire dalla propria comfort zone, premiando un film che in altri tempi si sarebbe definito di genere e quindi di “serie b”. Classe 1970, l’ormai noto cineasta nasceva a New York nel dicembre di quarantotto anni fa nel popoloso quartiere di Brooklyn. Dopo aver intrapreso gli studi alla fortunata New York University Film School, decise di abbandonarli per potersi dedicare in toto al suo primo film, già in essere alla giovane età di ventitré anni. Si trattava di un documentario, perché è così che il regista, che venticinque anni dopo si definirà “ossessionato dalla verità”, aveva avviato la sua carriera, con il cinema della realtà. “Heated” la pellicola cui aveva dedicato anima e corpo, un documentario sulla vita e la carriera del controverso cantante statunitense GG Allin, caratterizzata dalle estreme performance messe in atto sul palcoscenico insieme ai The Murder Junkies, il gruppo da lui stesso fondato insieme al fratello Merle. Il talento del regista non tardò a manifestarsi, né tantomeno a essere riconosciuto: la pellicola divenne uno dei film studenteschi più redditizi che fossero stati girati all’epoca, e ottenne di lì a poco anche qualche uscita in sala; riconoscimenti che si tradussero in una spinta a continuare con la consapevolezza di aver imboccato la strada giusta: pochi anni dopo il futuro maestro si cimentò nel suo secondo documentario “Frat House”. Erano le confraternite universitarie, stavolta, il fulcro dell’occhio della telecamera, diretto in collaborazione con Andrew Gurland. Il documentario venne presentato in anteprima al Sundance Film Festival del 1998 dove vinse il Grand Jury Prize. E galeotto fu il Festival, poiché gli diede l’opportunità di conoscere il produttore Ivan Reitman che lo guidò nella stesura dei primi film che rappresentarono un’importante inversione di rotta nel suo percorso. Erano i primi anni duemila, e con “Road Trip” e “Old School” prodotti dalla Montecito Picture Company di Reitman, Phillips dal documentario approdò alla commedia americana. Un’inversione di rotta certamente nel genere, ma non nel contenuto, poiché negli USA le commedie sono uno dei mezzi più utilizzati per raccontare quella verità che il regista non smetterà mai di cercare. Il cammino era ormai avviato, non si può dire che Phillips non avesse ancora sbarcato il lunario, ma dovette passare ancora qualche anno perché la sua carriera conoscesse la vera svolta. Era il 2008, e dopo aver fondato la sua prima casa di produzione, la Green Hat Movies, il cineasta si cimentò in una commedia che raccontava i postumi di una sbornia di quattro amici dopo un’indimenticabile nottata di addio al celibato: la commedia, dal titolo scontato quasi come il suo contenuto (“The Hangover”, alias “Una notte da Leoni”), sbancò ai botteghini di tutta Italia e anche di tutto il mondo. Impossibile non realizzarne un sequel, e nel 2010 e poi nel 2013 uscirono la seconda e la terza parte, che pur non raggiungendo i numeri della prima, mantennero un altissimo seguito di pubblico, facendo di “Una notte da leoni” una delle trilogie con gli incassi più alti della storia. Fa specie pensare che a distanza di qualche anno lo stesso autore arriverà a impugnare uno dei riconoscimenti più importanti del cinema mondiale per un film drammatico a sfondo psicologico; il che potrebbe rappresentare un ulteriore capovolgimento nella carriera del regista, ma quello che lui stesso tiene a sottolineare è il fil rouge che in qualche modo rappresenta una coerenza in questo lungo percorso: “Non c’è differenza tra i film che ho fatto in passato e quelli che faccio oggi. L’importante per me sono le storie. La commedia rappresenta la verità e negli USA la verità è offensiva, così ho deciso di allontanarmi dalla commedia perché le persone non riescono a sostenerla. Io ho iniziato facendo documentari, sono ossessionato dalla verità. Non so quale strada intraprenderò nei prossimi cinque – dieci anni”.