LA “TERRA SANTA” DI ALDA MERINI

La milanese Alda Merini prima d’essere ricoverata in manicomio aveva già scritto poesie che l’avevano posta giovanissima all’attenzione dei critici. Una volta libera, almeno in parte, dai problemi psichiatrici ha ripreso a scrivere. E l’esperienza del manicomio si è sedimentata nei suoi ricordi uscendone con un’abbondanza di parole. Un ingorgo di pensieri, aforismi, poesie tra dolore mortuario e felicità vitale, due condizioni esistenziali così vissute dalla Merini da sembrare ambedue un bisogno passionale. Per ragioni terapeutiche erano gli stessi medici a chiederle di scrivere. Ed è all’interno di questa massa di parole che alcuni intellettuali amici della scrittrice milanese hanno lavorato aiutando la sua poesia a emergere; e parola dopo parola, verso dopo verso la Merini s’è presa la rivincita sul male con una vena poetica di maggior spessore rispetto a prima. Come, concordando la selezione con l’autrice, ha fatto Maria Corti con “Terra santa”. Pubblicata la prima volta da Scheiwiller nel 1984 la commovente raccolta tocca il vissuto manicomiale della Merini. Appartiene alla ragnatela di ricordi dolorosi, a una Palestina della mente indelebile dove il manicomio è assimilato, appunto, a questo territorio geografico così dilaniato nel corso della storia da sofferenze, perdite e orrori “Ho conosciuto Gerico, / ho avuto anch’io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le mura di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti.”. Nonostante ciò quella della Marini non è una poesia patologica, ed è sorprendente notare come in un triste, cupo (malinconico?) descrittivismo aleggi in “Terra santa” un’indubbia serena e distaccata leggerezza nella quale il dramma del manicomio, dei ricoveri al Paolo Pini di Milano, appartiene “al passato”. Una giusta distanza che dobbiamo usare anche noi leggendo, perché la malattia mentale è una trappola infida, fa costruire leggende sia nel lettore che nell’autore. Deforma la sostanza vera della produzione. Lascia tutto in superficie. Non fa arrivare fino alla “menzogna feroce della vita”. La Merini è sfuggita a questa trappola, non ha creato il mito della folle. Noi, leggendola, dobbiamo restituirle lo stesso rispetto: non le poesie di una matta, ma quelle di una vera poetessa che ha saputo osservare ed entrare nel profondo delle cose: Viene il mattino azzurro / nel nostro padiglione: / sulle panche di sole / e di crudissimo legno / siedono gli ammalati, / non hanno nulla da dire, / odorano anch’essi di legno, / non hanno ossa né vita, / stan lì con le mani / inchiodate nel grembo / a guardare fissi la terra”.