MACRON ED ERDOGAN. INTERFERENZE PERICOLOSE NEI BALCANI. UNA BREVE STORIA

Balcani così vicini, ma così lontani dalle prime pagine dei nostri media. Situazione in evoluzione sussultoria e non priva di rischi, dopo la breve tregua del 2015/2016, quando il passaggio di centinaia di migliaia di profughi medio orientali e oltre, a prevalente destinazione germanica, aveva determinato un intervento della Merkel, che per regolare il traffico aveva anche funzionato da pompieraggio ai focolai locali. Poi la chiusura del corridoio balcanico aveva ridotto l’interesse della Merkel per quell’area, i profughi a bagno Maria, soprattutto tra Bosnia e Croazia, rischiavano ancora la pelle, di fronte al muro della polizia di Zagabria. Ma la ricaduta su Berlino era relativa. Aveva cercato di sfruttare il momento di relativa calma la Mogherini, due anni fa, facendo fare qualche passo in avanti ai contatti tra serbi e kosovari. I primi all’ultima fermata, nell’attesa dell’autobus per la Ue. I secondi ancora al di qua di salire, invischiati, come i bosniaci, dal fenomeno foreign fighters che arrivano dalle nostre parti provenendo principalmente da Bosnia e Kosovo. Al primo progresso dei negoziati ci fu chi parlò di candidatura della Mogherini al Nobel per la pace, ma fu subito sera, anzi notte. Dissidi tra i governanti kosovari, dove i cosidddetti guerrieri, quelli che nel 1998 la Cia definiva ancora terroristi prima di allearsi con loro, alzarono la voce. Conflitto tra il Presidente Thaci, nell’inedito ruolo di colomba e il premier Haradinaj, più falco che mai. Quest’ultimo, prima di dimettersi da premier per consegnarsi al Tribunale dell’Aja per l’ennesimo processo per crimini di guerra mise in atto nel corso di poco più di un anno, numerose azioni che resero impossibile qualsiasi intesa e alle quali anche Thaci accondiscese per non perdere di popolarità. Dal pestaggio di numerosi serbi kosovari in occasione dell’arrivo di un rappresentante del governo serbo, a sua volta arrestato, giunto nei territori del Kosovo abitati dai serbi per contattare gli abitanti. Alla decisione di mettere in piedi un esercito kosovaro su cui anche la Nato nutre perplessità. Al proclama di una possibile Grande Albania che arrivasse a sfondare i confini con Serbia, Montenegro e Grecia. Fino all’arresto pure di un diplomatico russo in terra kosovara. E in aggiunta un dazio del 100% in più sui prodotti provenienti dalla Serbia. Giustificazione? Il no della Serbia all’entrata del Kosovo in organismi come l’Unesco, a ricordare la distruzione di un patrimonio ineguagliabile di chiese ortodosse in Kosovo dall’arrivo al governo dei kosovari albanesi. Di tutto e di più per far saltare un accordo in cui il presidente serbo si era reso disponibile allo scambio tra territori serbi abitati da albanesi con alcune parti del Kosovo abitato dai serbi. Disponibilità che peraltro aveva suscitato più di una perplessità anche dalle parti di Belgrado e tra le minoranze serbe del sud del Kosovo. Oltre al no della Merkel presa dal timore, non del tutto ingiustificato, che un accordo raggiunto col mal di pancia producesse poi effetti perversi più conflittuali dei conflitti già presenti nell’area. Ricaduta maggiormente significativa, per quel che riguarda le più recenti tendenze in termini di alleanze internazionali, l’accentuata fraternizzazione tra la Russia di Putin che l’arresto di uno dei suoi proprio non l’aveva gradito e la Serbia di Vucic. Putin accolto trionfalmente a Belgrado. Gas per riscaldamento di provenienza russa garantito in Serbia per le fredde notti invernali e infine un sistema missilistico russo trasferito in Serbia pe manovre militari congiunte. Con la sensazione che, a manovre concluse, i missili e gli antimissili possano rimanere in Serbia a deterrenza dei kosovari, ma soprattutto della Nato. Rafforzamento dunque dei rapporti tra Mosca e Belgarado? Sicuramente, anche perché le nuove elezioni in Kosovo, a dispetto della sconfitta dei guerrieri di ieri, ha portato ai vertici i super nazionalisti di oggi. Il gruppo di Autodeterminazione, il cui leader, Kurti che, alla faccia di alcuni discorsi “di sinistra” sul piano interno, ha attenuato solo in parte il richiamo a quella voglia di Grande Albania che al giorno d’oggi difficilmente si discosta da un progetto di ripresa violenta delle ostilità. Ma anche perché sembra ridursi il peso nell’area dell’Albania di Edi Rama, che pure sostenendo le istanze dei fratelli kosovari pareva periodicamente proporsi in un ruolo di mediazione. Come mai? La cosa si fa interessante perché a un calo del peso di Rama nell’area corrisponde un più stretto legame della Nato e degli stessi Usa direttamente con Pristina. Diciamo allora che Tirana soffre sul piano interno, di accuse di corruzione del governo socialdemocratico che nell’ultimo anno ha determinato la pesante discesa in piazza del centro destra, ma questo non basterebbe a spiegare fino in fondo il tiepido sentire di Washington nei confronti dell’attuale leader albanese. Non sarà per caso che gli Usa non gradiscano i fin troppo buoni rapporti degli albanesi con lo storico alleato turco impersonato dall’infido Erdogan? A questo punto diventa necessario analizzare l’altro elemento di novità, indispensabile per comprendere la realtà balcanica, in un quadro di alleanze internazionali. Esso è dato dalla richiesta di adesione alla Ue di Albania e Macedonia del Nord. Solo un primo passo, per arrivare là dove già si trovano Serbia e Montenegro, lungo la strada lunga e non diritta che porta a Bruxelles. Ma un primo passo che solo pochi mesi fa sembrava cosa fatta e che oggi è temporaneamente fallito. Come mai? Per capirlo abbandoniamo momentaneamente i problemi tra Belgrado e Pristina e spostiamoci a sud. All’ordine del giorno della politica internazionale balcanica si era avuto, mesi fa, uno storico accordo tra Atene e Skopje. I greci, che avevano allora Tsipras come premier, rinunciavano a porre il veto all’entrata della Macedonia nella Ue, purché i macedoni modificassero il loro nome differenziandolo da quello di Macedonia, che costituisce la denominazione di una regione ellenica. Dall’altra parte del tavolo Zaev premier socialdemocratico di una Macedonia divisa in due dalla forte presenza di una minoranza albanese che fa storia a sé, soprattutto sul versante linguistico (nelle aree più periferiche a popolazione albanese la lingua macedone è ritenuta poco più che un’intrusa). Accordo raggiunto perché fortemente voluto dall’occidente. Ma anche accordo poco ben visto a livello locale da una parte non indifferente dei relativi popoli. Risultato, Tsipras perde le elezioni e anche Zaev oggi se la passa male. La ragione, per quest’ultimo, è che la Macedonia vive una polarizzazione non solo etnica ma anche politica. Dopo una breve guerra tra le due componenti, nel 2001, vigeva un compromesso che prevedeva al governo del paese un’alleanza che, qualunque ne fosse il colore politico, contenesse sia una componente slavomacedone che una albanese. Alle ultime elezioni però nessun partito albanese aveva fatto alleanza col partito slavo conservatore, in buoni rapporti con Mosca. Così aveva vinto Zaev, filo occidentale e appoggiato dalla quasi totalità degli albanesi e questo la controparte non lo aveva digerito. Ne erano seguiti scontri anche fisici in Parlamento, prima che il Presidente Ivanov, pure filo russo, accettasse a bocca storta il governo di Zaev. Per dovere di cronaca va ricordato che a livello ginnico atletico la componente slavo conservatrice aveva prevalso. Gli attuali governativi avevano riportato qualche pestone e gli oppositori qualche denuncia. Al momento di decidere del cambiamento del nome e dell’accordo con Atene, non avendo ottenuto il quorum col referendum, la proposta era potuta passare col quorum parlamentare solo perché alcuni dei denunciati avevano capito che, perché la denuncia fosse rimessa, conveniva loro accodarsi al fronte del sì. Così fu che il referendum passò. Di stretta misura, con grandi aspettative di entrare in Europa e con grande dispiacere di Mosca. Anche perché il quesito referendario non comprendeva solo l’accordo con Atene, ma anche l’adesione alla Nato, cui nel frattempo aveva aderito il Montenegro, contribuendo allo spostamento della Serbia in area sempre più filorussa. Arriviamo ad oggi. Con un sacco di esperti stranieri a spasso per i Balcani, qualche profugo in entrata e diversi foreign fighters in uscita. Tra gli esperti si distinguono, oltre ai russi, in Serbia, i cinesi, un po’ dappertutto, oltre a turchi e si dice, pure qualche saudita. Ricaduta sulla Macedonia ora del Nord. Consenso a Zaev legato ai buoni rapporti con la Ue con speranza di entrarvi. Ma questa condizione viene drasticamente meno, proprio mentre Zaev accusa qualche problema con la giustizia e deve annunciare un prossimo e forse turbolento turno elettorale. Entra allora in scena Macron e mentre tutti si aspettavano sorrisi da Bruxelles, rivolti a Macedonia del Nord e Albania, pone il veto cui ha diritto, all’avanzamento della trattativa con entrambe. Ragioni manifeste, abbastanza dignitose: l’allargamento della Ue ha finora prodotto danni, perché insistere senza prima essersi dati una regolata all’interno? Sì ma perché impuntarsi proprio ora che le attese nella strategica Macedonia del Nord si erano fatte pungenti e la delusione potrebbe rivelarsi pericolosa? Col paradosso che il paese si potrebbe trovare con una presidenza filorussa mentre si stringe la sua adesione alla Nato e l’Europa resta fuori dall’uscio. Tra l’altro la Ue come Parlamento vota per l’accoglienza, ma poco conta che la maggioranza dei sì sia del 70% di fronte al veto di Macron. Due le possibili interpretazioni. Macron piccato per il rifiuto di Bruxelles a designare la Goulart a capo della commissione all’industria, fa un dispetto alla Germania per far pesare la successiva candidatura del suo uomo di fiducia, Breton. Ma ancora più insidiosa potrebbe essere la propensione di Macron a fare un favore niente meno che a Putin che dell’allargamento a est della Ue non ne vuole sentir parlare. Futuro asse Parigi/Mosca, almeno nei Balcani? Per la Ue sarebbe lo sfascio, tanto più che il no di Macron si estende pure a un’Albania scossa da beghe interne e in questo caso viene sostenuto pure da Danimarca e Olanda a dividere ancor maggiormente l’Europa. Si aggiunga che a livello parlamentare il no, moritario ma irrilevante, ha il volto della Lega della Le Pen e il pasticcio si ingarbuglia ancora di più . Tanto che qualcuno subodora che la vera ragione della impennata di Macron sia quello di non perdere i contatti pre elettorali con una Francia di destra che vede come fumo negli occhi tutto quello che, come l’Albania, odori minimamente di Islam. Per finire torniamo a Belgrado. Qui un colpo di scena. L’ultimo ospite di prestigio corrisponde al nome di un nemico storico dei serbi: l’ottomano Erdogan. Il nostro come suo solito, si agita a 360 gradi, come in Medio oriente e come pare, in Ucraina. Non sempre gli va fatta bene e il suo pugno i ferro sul piano interno gli suscita ostilità internazionali così come il suo trasformismo in terra di Siria. Ma lui tira avanti a suon di denari. Con l’Albania patto di ferro che non piace a Washington ma che frutta la costruzione di un aeroporto internazionale. Col Montenegro con cui Ankara commercia armi a buon mercato (e la Nato da che parte sta?). Con Serbia (e Bosnia) si offre di costruire un’autostrada tra Belgrado (che non lo ama) e Sarajevo (che l’adora). Balcani insomma, nei quali una pace che da vent’anni si dovrebbe chiamare solamente tregua, non ha trovato adeguato e intelligente sostegno dall’occidente unito. Oggetto del desiderio di Russia, Cina, ma non soltanto. Oggi paiono prospettarsi all’orizzonte Macron ed Erdogan, ma forse è solo un intervallo. Più che altro, all’orizzonte, si profila un nuovo possibile caos. Grazie Europa, isola di una pace che non c’è.