AMERICA GATE, UNA BREVE STORIA

AMERICA GATE, UNA BREVE STORIA

Tutto comincia nel 2014, con la rivoluzione di Maidan, la caduta di Janukovic e l’intenzione manifestata dal nuovo governo di aderire alla Nato. Immediata la risposta da parte della Russia e della popolazione russofona dell’Est: annessione della Crimea e dichiarazione d’indipendenza. Conseguente inizio della guerra civile in Ucraina mentre in Crimea, sia detto per inciso, tutto tace (la popolazione, in stragrande maggioranza russa, il territorio appartenente da sempre alla Russia, salvo ad ed essere ceduto da Kruscev all’Ucraina nel 1953). Conseguenti sanzioni occidentali e inizio di una guerra a bassa intensità; conflitto a tutt’oggi esaurito ma non chiuso.A questo punto si aprono di fronte agli Stati Uniti tre strade. La prima è impersonata da Obama (in sintonia con la Merkel): mantenere il punto (sanzioni, condanna internazionale e così via) ma al tempo stesso congelare la crisi; accordi di Minsk e nessun avallo alle pretese del governo ucraino volte a fare dell’Ucraina l’epicentro di una nuova guerra fredda. Pretese, invece (questa la seconda opzione) condivise, se non incoraggiate, dall’establishment clintoniano, dai repubblicani e da gran parte degli apparati militari e di sicurezza: entrata nella Nato, aiuti militari, accantonamento degli accordi di Minsk: quanto basta, non certo per fare la guerra, ma per compattare, sul piano interno e internazionale l’immagine del Nemico.Trump è invece di tutt’altro avviso: i suoi nemici ideologici (Iran, Islam, regimi di sinistra dell’America latina) ed economici (Cina, Europa) non includono la Russia, anzi possono essere combattuti solo con la sua complicità. Si aggiunga, particolare non trascurabile, che il capo visibile del “partito ucraino” è Biden; e il quadro è completo.Tre opzioni. Sulle quali solo il popolo ucraino ha avuto la possibilità di esprimere un giudizio di merito; almeno nel senso di bocciare a schiacciante maggioranza la seconda. Una possibilità invece volutamente preclusa al popolo americano. Sia The Donald che Hillary (per inciso, la classica persona che sa tutto e non capisce niente) avrebbero avuto l’elementare dovere di porre la questione ucraina (insieme ad altre opzioni di politica internazionale ) al centro di un dibattito politico e pubblico. Hanno preferito farsi la guerra per servizi segreti interposti.Quello che ha fatto Trump lo sanno tutti anche se lo interpretano male. Il Russia gate non è stato una interferenza russa nel processo elettorale americano, con il coinvolgimento forse attivo ma magari anche passivo di Trump. Ma piuttosto il coinvolgimento di Putin da parte di Trump: chiaro nelle sue prospettive, quanto torbido nei suoi metodi: “domani la ripresa del dialogo, oggi però mi devi aiutare a trovare del materiale compromettente sulla Clinton”. Un meccanismo che si ripeterà, con Zhelensky come referente, nel caso Biden: uno che era stato in prima fila nel contribuire, diciamo così, al processo che ha portato alla rivoluzione di Maidan, un democratico russofobo di prima fila ma anche uno il cui figlio, un ragazzone simpatico, ma senza particolari competenze, era diventato dopo la sullodata rivoluzione, collaboratore di un oligarca, con retribuzione adeguata al suo cognome; oligarca successivamente oggetto di un’inchiesta della quale si sono perse le tracce.Sembra, qui e oggi, evidente a tutti, che la sua offensiva personale non porterà da nessuna parte. Si potranno convincere i già convinti che Biden abbia chiesto a Poroshenko di “aiutare suo figlio” in cambio del ripristino degli aiuti militari, all’epoca sospesi; ma nessuno dispone della pistola fumante che dimostri l’esistenza di un ricatto.Allo stesso modo la grande offensiva scatenata dai democratici, Pelosi in testa, non raggiungerà il suo obbiettivo: niente impeachment anche perché privo dei suoi due presupposti fondamentali (la conferma del ricatto da parte delle massime autorità ucraine; la frattura tra il presidente e il partito repubblicano).Dovremo, comunque, valutare, in conclusione, a quale dei due schieramenti abbia giovato una guerra personale. Ma è, in primo luogo, necessario esaminare, preventivamente le modalità, a dir poco torbide se non potenzialmente eversive, con cui questa guerra è stata condotta: e lungo più di tre anni.Il tycoon si avvale, per i suoi contatti con i russi, di amici personali, di traffichini vari e di componenti dei servizi segreti americani e, all’occorrenza, di paesi stranieri. Meglio ancora se da questi contatti venisse fuori materiale compromettente sulla sua rivale.Hillary, in un certo senso, va oltre. Si rivolge, tramite Poroshenko, ai servizi ucraini per avere notizie su Trump e su cosa fanno i suoi collaboratori, usando allo stesso fine, e in modo massiccio e continuativo, quelli del suo paese. Il tutto nella convinzione, ampiamente incardinata dopo la sua sconfitta, che questa sia stata la conseguenza dell’interferenza di Mosca.Una convinzione che si può condividere oppure no. Come si può ritenere che il ruolo determinante avuto dai servizi segreti americani, come da diplomatici e altri servitori dello stato, nel costruire e sostenere l’impianto accusatorio contro un presidente in carica, sia una commovente esibizione di sensibilità istituzionale.Io non ne sarei così sicuro. E anzi sarei portato a pensare che, in una democrazia, la mobilitazione, magari anche spontanea, degli apparati di sicurezza contro Trump contenga in sé, al di là delle intenzioni, conseguenze nefaste non solo per le istituzioni del paese ma anche, e soprattutto, per la sua credibilità internazionale.C’è da chiedersi, infine, a chi giovi una campagna presidenziale basata sulla contrapposizione tra le persone. E qui il combinato disposto di recenti consultazioni elettorali e dei sondaggi a disposizione, ci porta verso due direzioni solo apparentemente contraddittorie.Da una parte, i democratici battono i repubblicani sul territorio. Dall’altra Trump è dato ancora per vincente, sia pure di stretta misura, nei confronti di qualsiasi candidato democratico: con qualche punto percentuale in più nel caso di Biden.Il senso di tutto questo è chiaro: i democratici come partito sono oramai decisamente maggioritari nel paese. I loro candidati alla presidenza no. E questo anche perché questi candidati rappresentano, non solo nelle loro posizioni sui singoli problemi ma anche nella loro strategia elettorale complessiva, mondi diversi e tra loro incompatibili.L’establishment democratico vuole sconfiggere Trump come persona. E punta, logicamente su candidati “mainstream”, anonimi ma privi di asperità; che piacciano, moderatamente, a molti e che non urtino nessuno (al prezzo di una limitata capacità di mobilitare). E’ l’identikit di Biden. Ed è anche il senso di una contrapposizione all’attuale amministrazione tutta giocata sul terreno dell’impeachment.La sinistra e magari il “popolo democratico” vuole invece battere l’attuale presidente sulle sue politiche. E punta, di conseguenza, sulla capacità di elaborarne diverse e magari radicalmente diverse. Così i suoi candidati sono: decisamente fuori dal mainstream; urticanti per molti (anche all’interno del loro stesso partito) ma con una fortissima capacità di mobilitazione.Auspicabile, ma difficile, che nei tempi necessari possa emergere una figura di sintesi. E allora bisognerà scegliere. E in questa scelta occorrerà tenere conto delle indicazione che vengono dalla controparte.In parole povere se, fin dall’inizio, Trump l’ha buttata sulla rissa e sulla contrapposizione personale, qualche ragione ci sarà…