A PROPOSITO DEL GENOCIDIO IN LIBIA

Da un lettore di GENOCIDIO IN LIBIA, un “amico” su FB con il quale ho scambiato opinioni in passato ho ricevuto questa mail. Lui è un giovane professionista. Denota una sensitività che non si trova in tutti e aggiunge qualcosa alla mia convinzione di sempre: non soltanto gli italiani non hanno fatto i conti con il loro passato ma nelle nostre scuole di colonialismo e altre nefandezze nostrane si insegna poco. Gli ho chiesto di potere pubblicare queste righe e ha voluto soltanto che togliessi alcuni riferimenti precisi alla sua famiglia. Richiesta molto comprensibile. ho terminato oggi di leggere Genocidio in Libia.Ammetto che questa volta, la lettura non è stata semplice. La ragione? Gli autori del genocidio erano italiani, italiani in Africa. È molto meno difficile leggere di tragedie commesse da altri, da persone lontane, da popoli diversi dal proprio. In questi casi, l’immedesimazione nelle sofferenze e nei patimenti delle vittime è immediata, senza filtri o esitazioni. Ma quando gli autori sono italiani? Quando gli autori sono cosí vicini? Tutto si complica. L’empatia nei confronti dei deboli, dei perseguitati, è inevitabilmente preceduta da una terribile domanda e una labile speranza.La domanda si spiega facilmente con la speranza che nessuno dei propri familiari abbia preso parte a tanto scempio. Quando ho letto che l’arma dei Carabinieri era addetta al servizio di guardia al campo di concentramento ho avuto un tuffo al cuore.Conoscevo bene il nome di Graziani, perché fu lo stesso che firmò i documenti che portarono alla deportazione nel 1943 di 2500 carabinieri romani nei campi di prigionia in Germania e in Polonia. Conoscevo bene quel nome, perché il mio bisnonno lo individuava spesso come uno degli artefici delle sue sofferenze.Ora, leggendo le Tue pagine, la stessa Arma perseguitata dai tedeschi per poter deportare facilmente gli ebrei romani, mi appare nel ruolo di aguzzina. Ma le letture difficili sono quelle che, per il futuro, fanno bene all’animo, perché ci richiamano alla mente la finitudine dell’essere umano, mettendoci in guardia dalla facilità dell’errore e delle tragiche conseguenze che possono derivarne. Sapevo bene della partecipazione attiva dei Carabinieri al colonialismo italiano. Il padre di mia nonna paterna, oltre alla guerra in Albania, prese parte anche a quelle africane. Non so quali, sicuramente in Etiopia. In soppalco conservo copia dei fascicolo militare, poi appena avrò tempo Ti invierò una copia. La consolazione? Che la croce di cavaliere gli fu conferita per un’azione riportata nel vivo di una battaglia e non per stanare qualche “ribelle”, formula che leggendo il Tuo libro mi fa ora pensare a qualche azione rivolta contro dei civili indifesi. Sempre in Africa -prima a Tripoli poi in Etiopia o Eritrea- visse per qualche anno mio nonno paterno, con il fratello e i genitori che, da avventurieri quali furono per tutta la loro vita, intorno al 1940, si erano trasferiti lasciando in Italia una vita di benessere e certezze per correre il rischio dell’avventura avviando un’impresa di trasporti nelle colonia, naufragata col il succedersi dei fatti bellici.Di quel periodo conservo qualche lettera e foto diretta alla mia bisnonna, che in quel periodo fu madrina di guerra. Ugualmente, per il Tuo archivio, appena potrò Ti invierò una copia. Riguardo all’uso del gas, ero già a conoscenza avendo studiato sin dalle scuole medie su un libro di Storia alquanto valido. E già allora, era inevitabile richiamare alla mente la figura del marito della zia di mio nonno, moglie del generale pluridecorato dell’Aeronautica, che in Africa combattè, ma non voglio pensare oltre a cosa il suo aereo abbia lanciato e su chi. Come Ti accennavo, si è rivelata una lettura molto difficile. Altri e diversi sono i nomi di parenti, vicini o lontani, che in qualche modo presero parte alla fase coloniale. Chi per aprire le filiali del Banco di Roma mentre l’Impero avanzava, chi per prendere parte alla costruenda macchina amministrativa coloniale. Un’esperienza, quella coloniale, costruita sulla pelle di altri. Un’esperienza vicina, troppo vicina, per non apprezzare il Tuo scritto e la verità nello stesso espressa e non sentirlo come un insegnamento e monito quasi personale.