GLI USA E LE SANZIONI, IL CLIMA DOPO MADRID, BONTÀ E BUONISMO IN INDIA

GLI USA E LE SANZIONI, IL CLIMA DOPO MADRID, BONTÀ E BUONISMO IN INDIA

Oggi, sono oggetto di sanzione, effettiva o potenziale, stati, soggetti economici o individui in tutto l’orbe terracqueo. In virtù di un disegno che vede, caso più unico che raro, una concorrenza al rialzo tra Trump e il congresso e tra democratici e repubblicani. Quanto basta per fare non delle sanzioni ma del sanzioniamo l’oggetto della nostra attenzione.Alla base, una questione che tutti gli imperi (e gli imperialisti) hanno dovuto affrontare nel corso della storia: “come garantire il nostro ruolo in un contesto di risorse, economiche e militari, non illimitate anzi via via sempre più insufficienti”? E, parallelamente, come combinare al meglio il soft e l’hard power, leggi l’uso della forza e la capacità di indurre gli altri soggetti in campo a “fare di loro spontanea volontà le cose che noi vorremmo che facessero”?L’impero americano dovrà affrontare, e in modo drammatico, questi problemi ai tempi della guerra in Vietnam, con l’avvento di Nixon, e, esattamente quarant’anni dopo, durante la guerra in Iraq, con l’avvento di Obama. In ambedue i casi per riparare i danni derivati da una strategia di “interventismo democratico” basato su presupposti completamente errati (l’effetto domino, le armi di distruzione di massa), prima espressione del partito democratico e poi bipartisan.La risposta di Nixon si muoverà su tre fronti e con il massimo della visibilità politica: uscire dal sistema di Bretton Woods; chiudere la partita vietnamita aprendo alla Cina e cominciando a regolarizzare i rapporti con Mosca; e, infine, coinvolgere maggiormente nel ruolo di gendarme una serie di potenze locali: Cile e dittature sudamericane, Egitto, Iran, Pakistan e così via.Dal canto suo Obama punterà, del tutto correttamente, a ridurre l’esposizione militare Usa: cercando di porre su nuove basi il rapporto con la Russia, avviando ritiri dall’Iraq e dall’Afghanistan e chiudendo vecchie partite (Cuba, Iran); il tutto nella prospettiva di ristabilire l’egemonia americani sulle basi della superiorità economica e tecnologica e del soft power. Ma gli mancherà totalmente la volontà e la capacità, che aveva in sommo grado Roosevelt, di “parlare al popolo”, coinvolgendolo nel suo progetto e di misurarsi a viso aperto con i suoi avversari interni (repubblicani, complesso militare/industriale, establishment clintoniano). E, non a caso, uscito di scena, del suo disegno non rimarrà nulla; nemmeno i sostenitori.Con l’avvento di Trump, muta completamento il quadro di riferimento. L’obbiettivo dell’egemonia viene tenuto fermo: ma ora non si tratta più di crescere assieme agli altri o magari più di loro ma di “tenerli sotto”. Scompare poi, almeno nella pratica, la distinzione tra hard e soft power: perché al primo praticamente non si fa nessun ricorso; mentre il secondo assume sempre più le sembianze di una guerra condotta con altri mezzi. Infine, in questa guerra condotta con altri mezzi, tende a scomparire la distinzione tra alleati e avversari (nell’ottica Usa nemici) come tra legalità e illegalità. Nella logica di “prima l’America” tutti possono essere colpiti, in modo assolutamente arbitrario e dovunque, in un confronto che coinvolge il mondo intero e che è sempre a somma zero: si aggiunga che il trattamento sbrigativo dei nemici si estende sempre più anche agli alleati in una logica di “prima l’America”.Strumento ideale della nuova linea politica, appunto, le sanzioni. O, più esattamente, delle sanzioni modello Trump. Strumento che non ha nulla a che fare con quello che abbiamo studiato sui libri. Nessun riferimento alla collettività internazionale (i cui strumenti, dall’Onu, al tribunale penale internazionale, all’Organizzazione mondiale del commercio, sono anzi rimessi radicalmente in discussione). (Quasi) Nessun fondamento legale, anzi voluta ed esplicita arbitrarietà. Obbiettivi opposti a quelli conclamati: si colpiscono gli innocenti e non i, presunti, colpevoli; si affamano i popoli – dalla Siria all’Iran, dalla Russia al Venezuela, da Cuba alla Turchia – senza mutare, se non in peggio, i comportamenti delle loro classi dirigenti. Il tutto condito con una insopportabile sfacciataggine: è già duro, per la Germania, accettare, di punto in bianco, le sanzioni contro il North Stream; ma sentire l’ambasciatore americano a Berlino andare a dire in giro che tutto questo è stato fatto nell’interesse dell’Europa e cioè che è interesse dell’Europa comprare a caro prezzo il gas liquefatto che gli americano non sanno a chi vendere piuttosto che l’assai più economico gas russo è una roba impossibile da inghiottire.E fermiamoci qui. Perché quello che deve essere per noi, qui e oggi, motivo di angoscia non è la sanzione ma il sanzionismo. Leggi il fatto che la prepotenza, l’arbitrio e la violazione delle più elementari regole dell’ordine internazionale non solo vengano, almeno per ora, subite passivamente dall’Europa ma che non vengano in alcun modo contestate in America. Qui il Congresso – il senato repubblicano ma anche la Camera dei rappresentanti democratica – non solo sono sanzionisti senza riserva alcuna ma, semmai, sembrano volere andare oltre: lamentandosi per il mancato intervento militare contro turchi, siriani, iraniani e proponendo, in nome, beninteso dei diritti umani, nuove sanzioni contro Cina, Russia, Siria e magari Arabia Saudita e costruendo l’impeachment contro Trump in nome di una russofobia senza sfumature.Questo è dunque il sanzioniamo: l’”union sacrèè” dell’imperialismo più classico e dell’interventismo democratico più estremo in nome della “missione” assegnata all’America da Dio e della divisione del mondo tra Buoni e Cattivi.Saprà la sinistra democratica uscire da questo girone infernale? Lo speriamo; anche se non ne siamo affatto sicuri. L’incontro di Madrid sul clima si è concluso, lo hanno detto, tutti i giornali, come peggio non si potrebbe. Nessun impegno nuovo; disattenzione delle dirigenze politiche; tendenze evidenti a rimettere in discussione gli impegni presi. Una definitiva chiusura del sipario rinviata al prossimo anno.Da ora in poi, però, la battaglia contro il cambiamento climatico continuerà; ma con strumenti diversi e con protagonisti diversi. Niente più sfilate. Niente più appelli ai politici in generale e ai governanti in particolare. Perché le prime appaiono irrilevanti. E i secondi, che siano di destra o di sinistra, tutti incapaci, per mancanza di interesse o di volontà, di affrontare seriamente il problema.E, allora, si farà politica senza di loro. E in cinque direzioni diverse. Ci saranno le azioni civiche. I cittadini che si sostituiscono all’amministrazione nello sviluppare azioni concrete per la riduzione del Co2. E ancora i gruppi organizzati e organizzabili per contestare in tutti i modi possibili il “sistema”, al costo di farsi arrestare; ma rifiutando preventivamente l’uso della violenza. E ci sarà, ancora, il ricorso sistematico ai tribunali; avvalendosi di giudici sempre più disponibili a emettere, come negli anni sessanta e settanta, sentenze contrastanti con le leggi esistenti e anticipatrici di un ordine futuro. E qui vale la pena di ricordare, proprio nei giorni della clamorosa sentenza del Tribunale di Parigi contro France Telecom, per violazione dei diritti umani, un tribunale olandese ha condannato il governo per totale inadempienza rispetto agli impegni assunti per la riduzione delle omissioni. Si dirà che queste due sentenze sono soltanto un segnale senza alcun riflesso pratico; ma questo è il migliore elogio che gli si possa fare. Infine, e forse soprattutto, l’apertura di un nuovo fronte nell’economia: pressioni sulle banche e sui fondi d’investimento per ridurre investimenti e partecipazione nel settore dei combustibili fossili; e, contestualmente, apertura di un confronto diretto con il mondo del “big business”, con annessa spaccatura aperta tra quanti ritengono che il primo compito del management sia quello di distribuire profitti e soddisfare gli azionisti e quanti invece affermano, in un documento collettivo, la loro responsabilità primaria nei confronti dei lavoratori, della società e dell’ambiente.Sintesi di questi processi, la crescita esponenziale della politica e della partecipazione; accompagnata dall’impotenza e dal discredito dei partit e dei politici di professione. Un processo in atto in tutto il mondo; ma appena appena abbozzato nel nostro paese. Secondo Modi e il partito induista, tutti potranno emigrare in India ed essere regolarizzati; considerando la carta geografica e le condizioni dei paesi vicini un’apertura limitata ai tibetani e ai tamil; nel contesto indiano, una indicazione discriminatoria senza precedenti nel mondo.C’era, a questo punto, il timore che a protestare fossero solo i musulmani e gli attivisti dell’islamismo puro e duro.Ma non è stato così. Perché in prima fila nel manifestare, prendere botte fino ad essere feriti e uccisi e, in seguito, generalmente e individualmente minacciati sono stati i laici, le donne, le università, le professioni, i comuni cittadini, uniti nella difesa dei fondamenti stessi su cui si è retta per decenni la difficile convivenza collettiva degli indiani. E a impegnarsi politicamente a fondo a loro sostegno, il partito del congresso, con la voce di Sonia Gandhi e di altri importanti dirigenti.Buonismo? No bontà. Perché a dividere le due posizioni sta il rischio personale di chi le difende. Buono sarà chi, individualmente o collettivamente, si espone, giorno dopo giorno, a contestare leggi ingiuste e a proporre, in prima persona nuovi modelli di integrazione tra le persone. Buonista chi si fa fotografare su di una nave a sostegno dei “poveretti” ma non fa nulla per costruire, intorno a loro, nuovi diritti o per modificare leggi criminogene che gli impediscono l’uscita dalla clandestinità.Difficile essere buoni. Ma, forse, in una prospettiva futura, necessario.Facile e magari anche gratificante il ruolo di buonista. Ma inutile; e, soprattutto, controproducente.