VOLEVO NASCONDERMI, IL FILM SU LIGABUE INTERPRETATO DA ELIO GERMANO

VOLEVO NASCONDERMI, IL FILM SU LIGABUE INTERPRETATO DA ELIO GERMANO

La postura ingobbita, come la sua. Lo sguardo torvo, fisso. I capelli senza grazia, i baffi ingrigiti, il naso grande, ricurvo. Il colletto della camicia un po’liso, la giacca sfinita, il panciotto senza più colore. La magrezza del volto, la pelle che cade sotto il mento. L’amarezza, la sofferenza che traspaiono in ogni centimetro della sua persona. È Elio Germano divenuto – nello sguardo, nella pelle, nei vestiti – Antonio Ligabue. Lo vediamo, Elio Germano, somigliante in maniera millimetrica, nel poster e nel trailer del film “Volevo nascondermi”, in uscita il 27 febbraio. Racconterà la vita maledetta, dannata di un pittore dall’anima di bambino. La vita tragica di un pittore che si sentiva più vicino agli animali che agli uomini. La vita desolata di un uomo che ha cercato, tutta la vita, l’amore o anche solo il contatto fisico con una donna, senza trovarlo mai. La storia di Antonio Ligabue. Una faccia segnata dall’angoscia, dalla solitudine, dalla malattia mentale. Uno sguardo fiammeggiante, da rapace, gli occhi furiosi e impauriti, incassati nelle orbite. Una vita in bilico, fra la fama e il manicomio. Una vita mai felice. È il Van Gogh italiano, hanno scritto. Beh, forse nello stile, un lussureggiante naif, assomigliava forse più al “doganiere” Rousseau. Ma in realtà, era Ligabue e basta. Gli italiani hanno cominciato a conoscere e ad amare la sua storia nel 1977, grazie ad uno sceneggiato tv – ispirato a un racconto in versi di Cesare Zavattini – con cui si confrontò un’intera generazione. Ligabue aveva il volto di Flavio Bucci, in una prova attoriale superba, indimenticabile. Adesso, l’impresa tocca a Elio Germano. Impresa difficile. Ligabue, quello vero, nei rari filmati d’archivio, appariva come una creatura selvaggia, non riconducibile a niente. Si sentiva un animale fra altri animali, camminava per i boschi della pianura padana con uno specchio appeso al collo. Faceva il verso degli uccelli, sentendosi come loro. Sentiva presenze invisibili accanto a sé. Vestiva con abiti femminili, per sentire in qualche assurdo modo accanto a sé la presenza di una donna, una donna che non ebbe mai. Faceva statue masticando l’argilla in bocca, impastandola con la saliva. Faceva autoritratti colpendosi prima con una pietra, al naso o alle tempie. Dipingeva piangendo e ululando, come fanno gli animali. Se un’opera gli piaceva, ci dipingeva una libellula o una farfalla. Simboli di leggerezza, di gioia. Come si racconta tutto questo in un film? Ligabue era nato in Svizzera nel 1899: la madre era una immigrata del Bellunese; il padre ignoto. Laccabue si chiamava l’uomo che riconoscerà il bambino. Che poi verrà affidato a una famiglia di svizzeri tedeschi. Antonio crescerà senza parlare l’italiano, ma con un cognome che lo indicava a tutti come straniero. Bocciato mille volte a scuola, finito in un collegio per ragazzi con ritardo mentale, poi in clinica psichiatrica. Cacciato dalla Svizzera, portato a Gualtieri, in Emilia. Non parla italiano; finisce a vivere come un selvaggio, in un capanno sulle rive del Po, nei fienili. Poi, troppo tardi, la fama. Ieri, del film di Giorgio Diritti è stato diffuso il trailer online. “Ho scelto di non vedere lo sceneggiato, per non essere influenzato in nessun modo”, ha detto Elio Germano in una intervista concessa a Raffaele Meale mesi fa. “Ma, parlando con la gente del posto, ho visto che si è attaccato alla memoria delle persone; tanto che molti citano come aneddoti veri della vita di Ligabue cose riprese da quello sceneggiato”. E aggiungeva: “Sono molto curioso di recuperare quello sceneggiato, perché Flavio Bucci è un attore straordinario”. Il regista del film, Giorgio Diritti, non è nuovo a imprese cinematografiche coraggiose. Al suo esordio, con “Il vento fa il suo giro”, esplorò una storia nelle valli occitane della provincia di Cuneo, un posto totalmente dimenticato dalla modernità. Nell’ultimo film, “Un giorno devi andare”, esplora la vita di una suora e di una giovane donna in Brasile, fra gli indios dell’Amazzonia, e racconta di silenzi interiori e suoni ancestrali della natura. “Si può nascere con una fisicità sgraziata, una mente velata dalla follia, ci si può sentire sbagliati, soli, o avere voglia di nascondersi per la vergogna di esistere”, dice Diritti. “Ma si può credere nel proprio talento e farlo diventare l’occasione del riscatto. C’è sempre un modo per essere se stessi ed essere amati, e Ligabue ha cercato questo, tutta la vita”.