BUONGIORNO UN CORNO!, MERCOLEDI’ 5, D’ALTRONDE SE E’ SECONDA …

BUONGIORNO UN CORNO!, MERCOLEDI’ 5, D’ALTRONDE SE E’ SECONDA …

Al pub non sono turbati dalla Brexit. Una pinta di birra è pur sempre una pinta di birra, ha un suo pubblico, non c’è bisogno di parlare inglese per gustarla, dopo il terzo boccale siamo tutti fratelli e sorelle in questa locanda di squinternati dove si suona il blues a Kingly street. Qui, mi dice un collega, trovi un campione rappresentativo di una Londra che sta sparendo, di quella working class, ma da come tracannano sembra più una working glass, che fa lavoretti per fare i quattro soldi della giornata per la serata da passare con gli amici. C’è una differenza tra prima e dopo? Chiedo con lo spirito dell’esploratore che sta parlando agli indigeni, scandendo bene le parole. Sì, decisamente dicono tutti, che mi passano davanti prima un po’ ingrugnati e poi escono con un gran sorriso. Adesso va molto meglio di prima , è l’opinione comune a tutti. Capisco solo dopo che stiamo parlando di due cose diverse, perché mi sono messo a fare le domande davanti al bagno e quindi c’è questo spiacevole equivoco di quelli che prima entrando era peggio e adesso uscendo molto meglio. Perché all’inglese gliele devi fare precise le domande e lui, l’inglese che gestisce il pub, fa altrettanto chiedendomi  chi sono, da dove vengo e perché sto dando fastidio a tutti. C’è una questione che vale la pena affrontare una volta e per tutte, poi non ne parliamo più. Appena dici che sei italiano, qualsiasi cosa tu stia facendo sembrano sollevati. Anche se hai in mano una fiamma ossidrica con cui stai scavando  un buco sottoterra per arrivare al caveau di una banca, ti fermano, gli dici che sei italiano e loro fanno un verso come a dire “Ahhh, vabbè, allora tutto ok”.  Mi fermano mentre guido con il telefonino, lo so non si fa ma era tardi e stavo cercando la strada sul navigatore non telefonavo, scendo gesticolando come un pazzo, “posso spiegare tutto”, scendo nel dettaglio, parto da quando lavoravo qui tanti anni fa e concludo citando la storica militanza comune nella Nato, Churchill, George Best, la finale rubata ai mondiali del 66, il progressive, passando per una cugina che è praticamente nata qui, “pensi che corregge lei i compiti d’inglese al figlio nemmeno il marito che è scozzese”, poi passo a mia figlia che studia qua perché noi in famiglia amiamo questo Paese, e giurando che mai mi metterei ubriaco al volante in un posto dove vanno tutti in senso contrario rispetto all’Italia, e questo è assolutamente vero, anche se qui soltanto un ubriaco ingaggerebbe uno scontro dialettico con l’autorità costituita. Il più giovane ha continuato a scrivere fregandosene della mia arringa difensiva, dalla quantità di dati che ha immesso in quel foglio di carta non dovrebbe essere solo una multa ma una sentenza alla pena capitale citando anche gli antichi codicilli egizi. Poi interviene il suo collega più anziano, pelato con la lunetta grigia spelacchiata alla base della testa, due belle gote color rosso Guinness, lo stomaco dilatato da anni di obiezione di coscienza all’acqua. Dal rosso della pupilla stupita tendente a schifata si capisce che ne ha viste tante in vita sua. Prende sotto braccio il collega, guarda me, poi gli dice qualcosa all’orecchio. Quello reagisce, gli dice no chiaramente, ma l’altro è superiore in grado e con la mano fa un cenno che sta più o meno a metà tra un “Never mind” e un “These dicks”, lascialo andare. E mentre l’altro esita lo sentiamo tutti e tre dalla macchina che il vecchio saggio trova l’argomento definitivo per cui è inutile continuare la conversazione: “E’ italiano!”. Lo ammetto, non stiamo a sottilizzare o a fare gli offesi e scappiamo via ringraziando, ma arrivati a casa ci ripensiamo e decidiamo che vale la pena di parlarne. E’ considerata un po’ come una malattia, “lasciali andare, sono italiani”, “è inutile che provi a spiegargli le regole tanto sono italiani”, “Si, fategli lo sconto, è italiano”, “Ha rotto un bicchiere? Non fa niente, è italiano …”, “Guarda come sono affettuosi, sono proprio italiani”. Le belve allo zoo, da guardare senza avvicinarsi oltre la misura di sicurezza. Tra gli europei che abbiamo incontrato non c’è un’equivalente dell’italiano, il francese e il tedesco non sono visti come gruppo etnico “diversamente civile”. Un perché prova ad abbozzarlo Mimmo che lavora in una pizzeria di Coventry, una sorta di Ametrano (cit da Verdone) che vive qui da venti anni, ormai mette condimenti agrodolci sulla pasta che se lo vedessero i parenti di Vibo Valentia, da dove viene, lo incapretterebbero per poi esporlo in piazza come monito per gli infedeli, i rinnegati della ‘nduja. Il gusto. Qui il gusto è business, come tutto, spiega mentre impasta in calabrese e impreca in inglese sudando nella lingua universale della fatica davanti al forno. Non ci perdonano il gusto, non ci arrivano e non ci arriveranno mai. Poi spiega che nel suo locale una prima conseguenza della Brexit la stanno pagando da subito. Le tasse sulla birra italiana, un problema talmente serio che con altri pizzaiuoli hanno chiesto di essere ricevuti da Boris Johnson e hanno interessato il sindaco di Londra. Con i dazi introdotti fin dal primo febbraio, ieri però hanno ottenuto una sospensione fino all’estate, una lattina di birra italiana in tavola arriverebbe a costare fino a 5 sterline. Come faccio, si chiede Mimmo, a far pagare una pizza otto sterline e una birra italiana cinque? E siccome lo sanno che quando la gente viene in pizzeria vuole la birra italiana, non lo fanno per la tassa ma per imporre un loro prodotto a scapito del gusto. Per questo a Mimmo non gli piace la Brexit, che facciano un po’ come gli pare, non gli interessa, ma se le comunità straniere le colpisci al cuore della loro specificità, gastronomia soprattutto, non è più un’esigenza economica, è un’insofferenza alla diversità del gusto. Mimmo non lo sa ma poche ore prima Boris Johnson è apparso in tv e ha specificato che Il Regno Unito deve fare come Superman e diventare “campione potenziato” del libero commercio senza bisogno di accettare le norme Ue. “Il commercio globale – ha detto testualmente – ha bisogno di un Paese pronto a togliersi gli occhiali da Clark Kent, saltare nella cabina telefonica ed emergere con il suo mantello, come il supereroe potenziato del diritto delle popolazioni della Terra a comprare e vendere liberamente tra loro”. Come paradosso a supportare il ragionamento di Mimmo è il dottor Mastrantonio da Mondovì, un operatore di borsa che lavora nel cuore della City. Gli chiedo da accendere al parco di Kensington Gardens, dove mangia un frugale sandwich, nascondendosi a differenza di Mimmo, nascondendo la sua origine tra centinaia di altri operatori senza anima. Qui gestivano i fondi pensione cinesi, racconta spiegando che è stato uno dei primi nel settore, ancora adesso nonostante molte società si siano spostate in Canada il movimento di soldi è impressionante. E quando si doveva trattare direttamente con il cliente ci mandavano a noi italiani per essere morbidi e trasformare in acquisti le richieste dei cinesi che vogliono vedere solo l’utile, fanno paura agli inglesi. Poi, prosegue spazzolandosi via le briciole del pasto, ci hanno messo a fianco personale inglese, alle riunioni non ero più solo, c’era sempre un giovanotto senza esperienza con me che stava sempre zitto. Da gennaio il giovanotto che mi accompagnava è diventato il mio capo, si è preso il portafoglio clienti e io sto cercando in giro perché non so quanto tempo ancora mi faranno lavorare lì. Insomma questa Brexit al momento sembra una specie di rivolta dall’alto di chi ha dovuto subire a lungo la maggiore qualità culturale, lavorativa ed empatica, di altri gruppi sociali. E’ interessante l’invidia della capacità altrui come argomento da approfondire in un Paese dove la libera iniziativa del capitalismo, e quindi la capacità individuale, dovrebbe invece essere premiata. Per questo la sera, prima di essere fermati dalla polizia, eravamo andati a parlare con qualche inglese vero, perché, soprattutto qui a Londra dove di inglesi veri ce ne sono davvero pochi, tutti parlano della Brexit meno gli inglesi. Un po’ perché parlano poco in generale di politica in un pub, un po’ perché l’impressione, molto superficiale, è che siano quelli che hanno compreso meno di tutti le conseguenze del loro felice neo isolazionismo. Ma nel pub del blues dal vivo le dodici battute scorrono tra voci dell’anima dal palco e voci confuse e alcoliche sotto. Così, tanto per sfrucugliare un po’ il mio nuovo amico inglese, con cui divido mezzo sgabello e la puzza di aglio soffritto in una discarica di Bombay che esce dalle nostre bocche dopo il secondo piatto di costine al barbecue, gli chiedo che ruolo ha avuto secondo lui la Regina nella Brexit. Mi guarda, guarda, il boccale, lo vede pieno e si tranquillizza e poi mi dà la sua spiegazione, quella vera, quella che non troverete sul Financial Time tra gli editoriali o sul Guardian in prima colonna. “Elisabeth?”, si la Regina Elisabetta preciso incuriosito. “She is Elisabeth the second. Ask yourself why She is not the first”. Non ci avevo pensato effettivamente, cavolo, ecco perché non ha brillato in questa fase! A domani.