ADDIO KIRK, ULTIMO DIVO DELL’ETÀ D’ORO DI HOLLYWOOD

ADDIO KIRK, ULTIMO DIVO DELL’ETÀ D’ORO DI HOLLYWOOD

LOS ANGELES. Addio anche a lui. Pensavamo fosse immortale, ora che era arrivato a 103 anni. Invece Kirk Douglas è morto, è andato nella Hollywood del cielo, a raggiungere altri “duri” come lui: James Cagney, Robert Mitchum, il suo amico Burt Lancaster. E molte delle donne che, sullo schermo, ha baciato. Era una leggenda, l’ultimo divo dell’età d’oro di Hollywood. Era lo schiavo Spartaco, gladiatore che a petto nudo conquistava il pubblico di tutto il mondo. È morto il giornalista senza scrupoli dell’ “Asso nella manica” di Billy Wilder, affamato di scoop, anche a costo della vita di un uomo. È morto l’ufficiale che attraversa le trincee di “Orizzonti di gloria”, mentre intorno brucia l’inferno, bombe e cannonate, e lui indifferente a tutto. Ha avuto una vita grandiosa e bella, ha attraversato un secolo, è sopravvissuto a un incidente spaventoso, a un dolore atroce – la morte di un figlio. È stato un combattente. Vederlo ridotto alla mummia di se stesso, nelle ultime apparizioni stringeva il cuore. Non c’è un modo per rimanere immortali? No, non c’è. La sua è stata la dolorosa morte di un centenario, risucchiato millimetro dopo millimetro, secondo dopo secondo, nel grande Buio. Le ultime foto ci consegnavano un fantasma sulla sedia a rotelle, burattino retto da fili invisibili: forse quell’ultimo passo è stata una liberazione. Restano i suoi film, i suoi occhi azzurri sullo schermo, la sua beffarda fossetta in mezzo al mento. Adesso sei di là dal fiume, insieme al tuo regista Stanley Kubrick; ci avevi visto giusto, quel ragazzo aveva talento. Ti eri innamorato di quel copione, “Orizzonti di gloria”. Hai imposto il ragazzo alla produzione di “Spartacus”. E Kubrick ti ha ripagato, dandoti uno dei tuoi ruoli più memorabili. Una vita leggendaria, nata nella miseria più nera. Era nato nel 1916: in Europa si ammazzavano a cannonate. Nello stato di New York, dove era nato, figlio di ebrei bielorussi, morivano di fame. Erano sette fratelli; a lui era toccato il nome Issur Danielovitch. La sua autobiografia l’ha intitolata “Il figlio dello straccivendolo”. Ma ce la puoi fare, ce la puoi fare. Se hai una tenacia formidabile, se lavori come cameriere e intanto vai all’università, se la sera provi a fare teatro. E ti scegli un nuovo nome: Kirk, come un personaggio dei fumetti, e Douglas come la sua insegnante di dizione. E quella miseria che hai ingoiato a grandi bocconi ti darà la grinta che porterai addosso, scritta sulla faccia, tutta la vita. Saranno novanta i film che interpreta. Nel “Grande campione” di Mark Robson, del 1949, è un pugile che non sa accettare la sconfitta. Nel 1954, in un film di Mario Camerini, è un Ulisse impetuoso: lo rivedremo in una scena di “Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore. È il pittore Van Gogh in “Brama di vivere” di Vincente Minnelli, che gli darà una delle sue tre nomination all’Oscar: non lo vincerà mai. È l’implacabile Doc in “Sfida all’Ok Corral” di John Sturges, del ’57, uno dei sedici film che girerà con Burt Lancaster. Cinquant’anni di film, tre nomination, mai la vittoria. Alla fine, la moglie Anne gliene comprerà uno finto, da mettere in salotto per esorcizzare l’argomento. Invece gliene attribuiranno uno alla carriera, nel 1996, l’anno in cui un ictus gli toglierà l’uso della parola. Tanti film, altrettante donne. Un matrimonio giovanile, con l’attrice Dana Dill, la madre di Michael Douglas. Ma troppi flirt lo minano: Anna Maria Pierangeli, Rita Hayworth, Marlene Dietrich, Joan Crawford… Nessuna sfugge al suo fascino. No, una osa rifiutare un suo invito a cena. È Anne Buydens, un’oscura addetta stampa che incontra sul set di un film in Francia nel 1953. “Grazie, preferisco tornare a casa a farmi due uova”, risponde lei. Un anno dopo si sposano. Non si lasceranno più, fino all’altro ieri. Lei ha cento anni, 66 dei quali vissuti al fianco di Kirk. Insieme sopporteranno il dolore per la perdita del figlio Eric, morto nel 2004 per overdose. Era un duro, Kirk. Sullo schermo dava il meglio di sé nei ruoli da cattivo, come in “Le catene della colpa”. Ma ancor più lo era nella vita. Forte, autoritario, difficile. Ma ostinato, quando credeva in qualcosa o qualcuno. In “Orizzonti di gloria”, quando scoprì che la produzione aveva cambiato il finale del film, spegnendone tutta la forza, incoraggiò Kubrick ad opporsi, e insieme mantennero la versione originale di quell capolavoro antimilitarista. In “Spartacus”, pagò di tasca sua lo sceneggiatore Dalton Trumbo, finito nella lista nera dei sovversivi di Hollywood, e impose che il suo nome riapparisse nei titoli di coda del film, riabilitandolo nel mondo del cinema che lo aveva cacciato.In vecchiaia, scampato alla morte quando il suo elicottero si schianta a terra, si riavvicina alle sue origini ebraiche, alla sua fede, al suo popolo. Scrive una autobiografia – in Italia la pubblica Rizzoli – e diversi romanzi. Dona 15 milioni di dollari a una clinica per ex attori malati di Alzheimer. Combatte anche contro l’ictus, riacquistando in parte l’uso della parola. Il figlio Michael, l’attore due volte premio Oscar, prende congedo da lui su Instagram con le parole più semplici: “Per tutti eri una leggenda. Per me eri semplicemente papà”.