STORIE AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

STORIE AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

di Nedo da Terranuova detto di “Il Bronzaccio” Continua il libro chiamato DECOVIDON,nel quale si contengono sette novelle raccontate da quattro ragazze e tre giovani uomini. (Le giornate della Domenica e del Lunedì sono state pubblicate Domenica) “Di come le spose pentite cercarono di confessare all’Arciprete di aver fatto i propri mariti becchi.” E’ noto che, con la crisi del lavoro, quasi sempre sono le donne ingiustamente ad essere svantaggiate. Le giovani e belle donne, spose o fidanzate si trovano, specialmente nei piccoli paesi e frazioncine a passare tutto il giorno da sole. La sera i mariti e fidanzati, tornano tardissimo, sfiniti dalle fatiche quotidiane e da ore di treno e macchina. Si addormentano presto davanti al televisore e vanno a letto preoccupati dall’ora presta a cui si dovranno alzare. Le Esigenze carnali della giovane età spesso non vengono appagate dai rispettivi consorti e finisce che le donne cedano al richiamo dei loro corpi concedendosi ad amanti fissi o saltuari, facendo così “becchi” gli ignari partner. In effetti però di questo si dolgono assai le donne e grande è il dispiacere, perchè l’amore per il proprio uomo in realtà è acceso nel cuore. Le rode e le tormenta il pentimento per le malefatte tantoché esse si rivolgono al prete confessando tutto il sabato per poi, la domenica, essere mondate per il proprio compare. Successe che il sabato ci fosse la fila davanti al confessionale nella piccola chiesa nel centro del paese. Il parroco del paese era un certo Don Dino della Traiana, da anni Arciprete di Terranuova conosceva tutte le donne del paese e luoghi limitrofi, per aver fatto loro dottrina, comunione e ad alcune lo sposalizio. Tutte entravano in confessionale si facevano il segno della croce e iniziavano con la stessa storia: ”oh padre ci sò ricascata e ho tradito i’mi marito”. A quell’ora nella chiesa c’era sempre il vecchio sacrestano tale Nello di’Renzi dalla Treggiaia. Spazzava e puliva la chiesa per le funzioni della domenica. Nel passare i’cencio vicino al confessionale ogni tanto diceva – “si senteee”- e continuava a fare il suo lavoro. Don Dino s’affacciava, lo guardava con faccia interrogativa e tornava a parlare con la donna “Mara, Mara… 80 Avemaria e 10 candele a San Donato” Arrivò la seconda – “Oh Don Dino e so stata a letto con l’idraulico” – e un pò più in là il sacrestano ripeteva – “e si senteee!” Il prete imperterrito continuava – “Rina, Rina… 90 Avemaria e 15 candele a San Donato. Anche la terza confessò il tradimento e Nello ancora – “si senteee!” A quel punto l’Arciprete irritato da quelle interruzioni disse alle donne – “scusatemi torno subito”. Prese sottobraccio il sacrestano lo portò in sacrestia e un po’ scocciato gli domandò – “Allora Nello me lo dici perché tu dici sempre quella frase?” “Oh Dino” – rispose il sacrestano -“e si sente tutto, la chiesa l’è piccina e rimbomba tutto e la confessione dei tradimenti potrebbe essere ascoltata anche da fuori” “Ohh per San Tito, ci mancava anche questa” – disse il prete mettendo le mani giunte e occhi al cielo – “devo fare qualcosa”. Andò di là, riunì sulle prime panche tutte le donne e parlò – “Bimbe mie bisogna che si inventi una frase diversa, che non dia sospetti altrimenti si rischia che la confessione da privata e la diventi pubblica e sarebbero guai di nulla. Allora da qui in avanti mi direte che siete “inciampate” per strada o in un marciapiede, insomma da qualche parte” A tutte sembrò una cosa giusta e così i sabati di confessione andarono avanti tra inciampate e penitenze. Nello, il sacrestano, intimo amico del Sindaco, passa un sabato e passa un altro, non potè tenere questo segreto così piccante e lo raccontò al primo cittadino che rise di gran gusto. Ora accadde che, qualche mese dopo, improvvisamente l’Arciprete fosse promosso a Monsignore e mandato dalla mattina alla sera nel capoluogo di provincia. Il nuovo parroco, che veniva da Troghi, iniziò la sua attività e durante la confessione apprese di tutti quegli strani inciampi delle donne che ignare,pensarono bene di non cambiare abitudine. Il prete, non sapendo bene cosa fare, dopo aver domandato se le signore nel cadere avessero bestemmiato, non trovava di meglio che assolverle con un’Ave Maria e mandarle a casa. Però preoccupato una mattina chiese udienza al Sindaco che l’accolse volentieri. “Sindaco, guardi che qui la cosa è seria, le strade e i marciapiedi del paese e devono essere parecchio pericolose, c’è una marea di donne del luogo che inciampano spesso e lei rischia parecchio” Il Sindaco, che conosceva tutto l’antefatto, a quella dichiarazione non potè trattenersi dal ridere davanti al parroco. Il nuovo prete del paese, quasi offeso allora si alzò e indispettito per quella mancanza di rispetto, disse al Sindaco “La rida, la rida parecchio la su’moglie la scorsa settimana e l’è inciampata tre volte”. “Di come nacque la leggenda del furbo mezzadro che riuscì a comprare il podere di’Querciolo senza sborsare un centesimo.” Proprio sopra a Terranuova c’è una collina chiamata “Il Poggio dell’Orlandi”. Lì ci sono dei bei poderi con campi fertili. Ci viveva Rino di’Zeppolo, un contadino che aveva un bel campo proprio in quel luogo. Rino era conosciuto come una persona avarissima, furbo e scaltro, non aveva frequentato la scuola ma sapeva bene fare i conti in maniera che tornassero sempre a suo favore. Come si dice “scarpe grosse e cervello fino”, nessuno sarebbe riuscito a fregarlo. Accanto al campo di Rino c’era un podere chiamato “Il Querciolo” proprio per il boschetto che ci stava in mezzo. A Rino il campo del Querciolo avrebbe fatto veramente comodo perchè poteva ingrandirsi e aumentare i suoi raccolti. Non riusciva mai, però, a vedere il padrone o un contadino a lavorare o seminare. Di fatto la mattina presto al sorgere del sole, quando Rino iniziava la sua giornata di lavoro con l’aratro e la zappa, il campo di là era belle che arato e governato, come se ci fosse stato un incanto. Finalmente una bella mattina di Maggio capitò che nel mezzo del Podere ci fosse un uomo con la vanga in mano. Rino non si fece sfuggire l’occasione esi avvicinò. “Buongiorno, l’é tanto che volevo parlare con lei”. L’uomo non rispose e sdegnosamente rimaneva di spalle e un cappellaccio in testa. Rino non si sdette e continuò – “la mi stia a sentire o che lo venderebbe questo campo e mi garberebbe parecchio. Sa…e mi vorrei allargare e se non le facesse scomodo, ma chissà quanto vuole?” L’uomo si voltò, si tolse il cappello e rivelò le corna e gli occhi rossi. Era proprio il diavolo e così a Rino si spiegava la magia del campo. “Certo che lo cedo” – disse il diavolo – “e non voglio neanche un centesimo. Siccome te non puoi fare a meno di tutte le cose che coltivi, ti priverai di metà sia di quello che nascerà nel mio campo ma anche di quello che crescerà nel tuo, se riuscirai a sopravvivere lo stesso ti darò il campo se non ci riuscirai mi darai l’anima”. Rino, per niente impaurito, ci pensò su e disse – “Va bene, facciamo così, per il tuo campo ti darò tutte le cose che cresceranno sopra la terra e io terrò quelle sotto mentre per il mio sarà l’inverso, così tutto sarà metà esatta.” Il diavolo, certo che il contadino non ce l’avrebbe fatta, gli dette la mano e se ne andò. Rino allora seminò nel campo di Mefistofele le rape e nel suo il granturco. Passato il tempo dovuto, dalla salita del Poggio dell’Orlandi si presentò il diavolo. “Ecco” gli disse Rino – “Queste sono le cose che ti spettano: le foglie delle rape che son cresciute sopra al tuo campo e le radici del granoturco coltivato nel mio. A me le rape e le pannocchie, io l’accordo l’ho rispettato”. Il diavolo comprese di essere stato fregato e diventò così rosso di rabbia da incendiare il cappello e tra sbuffi e zolfo sparì, sprofondando proprio in mezzo al campo del Querciolo. Il contadino allora si impossessò del podere del Querciolo e da lì nacque la leggenda di Rino di’Zeppolo che gabbò il Demonio. (Le ultime giornate della settimana saranno pubblicate prossimamente)