LETTERE DA UN PAESE CHIUSO 7. I RAGAZZI E LE RAGAZZE DEL ’20

LETTERE DA UN PAESE CHIUSO 7. I RAGAZZI E LE RAGAZZE DEL ’20

Lettere da un paese chiuso 7I RAGAZZI (E LE RAGAZZE) del ‘20Avevano dei nomi antichi, portati come si porta un abito fuori moda, o si pronunciano parole dimenticate. Luigi, di 86 anni. E Severa, 82 anni. Si erano sposati 62 anni fa. Sono morti a due ore di distanza l’uno dall’altra, in un ospedale di Bergamo.Ieri sono uscito per prendere il pane, i giornali, e portare il cane ai giardinetti. Adesso hanno le mascherine quasi tutti, e molti anche i guanti. Il rosticciere ha il bancone dei cibi pronti vuoto: la gente ha tempo di cucinare. Dal fornaio c’era la colomba, e mi è sembrata uno degli uccelli che Cristoforo Colombo aveva visto dalla sua caravella.Milano e la Lombardia sono ancora lontane dal picco del contagio. E io sono tormentato, perché mio figlio studia a Londra e Boris Johnson ha deciso che le università non chiudono, e mio figlio non può partire sino alla settimana prossima, quando ha un incontro per lui decisivo. E sto qui a sperare che quel ciuffo improbabile abbia ragione, e che siamo noi italiani i tragediatori, e non ha senso far venire mio figlio qui, nell’occhio del ciclone, meglio stia lì, o forse loro non hanno capito niente, e comunque meglio stia con noi, vicino a noi. Forse hanno ragione tutti quelli che se ne fregano, quelli che il mondo resta sempre uguale, con se stessi al centro. Il mondo sta per cambiare più di quello che noi pensiamo: l’Europa comunitaria sta morendo, gli americani sospettano che il virus sia sfuggito di mano ai cinesi, arma batteriologica, i cinesi sospettano glielo abbiano portato gli americani, i russi si tengono in un isolamento che sembra una quarantena. Tutto cambierà, a cominciare dall’economia, e non sempre in meglio.Ma oggi voglio pensare a quello che mi ha detto il mio amico anestesista, ieri sera: la cosa peggiore è vederli morire soli. Allora vorrei pensassimo tutti per un momento a questi vecchi che muoiono come numeri. Alcuni hanno passato da tempo gli ottant’anni, altri ci devono ancora arrivare, qualcuno ha appena passato i sessanta. Sono, spesso, vecchi del nostro tempo: viaggiano, mantengono nipoti con le loro pensioni, vestono sportivo. Erano bambini o non erano ancora nati quando c’era la guerra. Ma hanno vissuto il dopoguerra, quelle infanzie sobrie e felici di poco. Hanno vissuto il boom economico, e forse come prima auto hanno avuto una 500. Hanno vissuto gli scossoni del ’68, gli anni del terrorismo, hanno visto il mondo cambiare fino a quell’ 11 settembre degli aerei nei grattacieli. Già da un po’ il mondo era cambiato troppo: dai telefonini al computer, dagli algoritmi ai social. Ma se la cavavano, ricacciandosi in gola quello che li faceva sembrare nostalgici dei loro tempi. Qualcuno aveva bisogno di una badante, qualcun altro no. Eppure erano stati bambini anche loro, avevano preso un sacco di sberle dai genitori e dai maestri, ricevuto regali utili ai compleanni. Conoscevano giochi e parole perdute, anche se molti dimenticavano le cose del giorno prima. Erano stati ragazzi e ragazze, avevano ballato e cantato anche loro, disubbidito anche loro, sognato anche loro. Avevano fatto la naja con la classe e il corredo da sole, prima di diventare genitori e nonni. Avevano acciacchi, quelle che con un po’ di infamia adesso chiamano “patologie pregresse”, come se il mondo dovesse essere tutto, anche la vecchiaia, ariano e sano, e se no mi dispiace. Se uno ha un tumore a 30 anni, cosa diciamo, che aveva qualcosa che non andava nel DNA, mi dispiace ? Non avrebbero avuto molti anni davanti, ok. Ma morire da soli, essere parte di una statistica, essere nella scaletta di una conferenza stampa alla Protezione Civile, questo no. La morte non è mai bella, ma è una carognata quando nessuno mette un manifestino mortuario sui muri delle vie deserte come usa in tanti posti, o quelle tende lugubri sui portoni, come usa a Milano. Fossi il ministro della Sanità farei un decreto che autorizza i figli o gli psicologi o i volontari in quelle stanze di agonia: ok, bardati come alieni, non occorre che parlino, senza intralciare medici e infermieri, basta che con la mano guantata di guanto monouso stringano una mano che se ne va al tempo della fine delle strette di mano.Mio padre mi portò, quand’ero bambino, a vedere un film. Ricordo ancora l’ingresso del cinema, le sculture che mi incutevano timore come a entrare in una grotta, e ricordo la mano di mio padre. Io avevo 8 anni, e forse mio padre aveva ricevuto qualche biglietto omaggio, perché il film non era il più adatto. Sì, era di guerra, come piacevano a noi bambini di allora, ma soprattutto di dolore, un soldato giapponese che diventa bonzo per seppellire i soldati morti sul campo di battaglia, con un’arpa birmana a cantare il dolore. Non ho mai dimenticato quel film, la lezione di rispettare la morte di chiunque, e di seppellire chiunque, sia pure a modo tuo. Niente funerali, adesso, niente fiori nei giorni in cui i giardini esplodono di pruni e magnolie, niente orazioni. Ma se ogni comunità, ogni paese, ogni città non facesse, alla fine, il prossimo giorno dei morti, un minuto di silenzio, un rito collettivo, una messa a chiese riaperte, un cazzo di discorso da sindaco per ricordarli, questi che se ne vanno soli e inavvertiti, allora vuol dire che ne saremo usciti peggiori, un paese senza Spoon River insegnata nelle scuole, un paese senza passato, e così senza futuro.La situazione migliora nel primo focolaio, solo una ventina di contagi, nei tre comuni di Codogno, Castiglione e Casalpusterlengo. Ma è drammatica a Bergamo, dove non c’è più posto negli obitori, si usa una chiesa. E peggiora a Milano, con una preoccupazione: se il contagio dilagasse in una città da tre milioni di abitanti, è la resa. Rischieranno anche i giovani, non solo i vecchi ragazzi e le vecchie ragazze degli anni ’20. Ricorderete: i ragazzi del ’99 erano quelli che compivano diciott’anni e andarono al fronte dopo la rotta di Caporetto, nel 1918.A proposito, vi ho detto che se hai più di sessant’anni è difficile che nelle terapie intensive ti diano un posto. Che va, giustamente, a chi fornisce più speranze di successo terapeutico. Ieri, 13 marzo, era l’anniversario della morte di Raffaele Ciriello, ucciso da una raffica partita da un tank israeliano mentre “copriva” gli scontri di Ramallah. Era un bravo fotoreporter di guerra, e aveva 42 anni quando cadde. Oggi avrebbe avuto 61 anni, se non calcolo male: lista d’attesa, per la terapia intensiva. Ma siccome era uno tosto, sarebbe stato dall’altra parte della barricata. Perché era anche medico chirurgo.