BUONGIORNO UN CORNO!, MERCOLEDI’ 18, IL SECOLO GREVE …
Era davvero difficile immaginare nel 1976, agli esordi, che Repubblica, quotidiano fondato da una congrega di laici per eccellenza, da Scalfari a Rocca a Bocca, sarebbe diventato l’organo ufficiale del Vaticano e del suo massimo esponente, cinque pagine intere nel numero in edicola oggi. Ma visto che di questi tempi la speranza di vita umana risiede più nelle parole di un brutale virologo che in quelle di un garbato santo, che, ci si permetta l’ironia con il massimo rispetto, continua a violare le regole d’isolamento passeggiando per strada e consigliando a tutti baci e abbracci, approfittiamo di questa piccolissima contraddizione del ventesimo secolo per parlare dell’enorme contraddizione che l’intero ventesimo secolo presenta dinanzi ai nostri occhi proprio in questi giorni. Perché la vicenda del coronavirus arriva per ultima a suggellare che è in atto la revisione la cancellazione di tutto ciò in cui credevamo e per cui abbiamo agito nel ventesimo secolo. La tesi che vi propongo è inusuale, ma siccome onestamente non avete molto di meglio da fare, considerato che tanto Pornhub premium gratuito lo ritrovate là anche dopo, proviamo a sederci insieme in questo salotto virtuale in cui siamo costretti e ragioniamo di quando usciremo di casa e dovremo comunque ripensare al mondo come l’abbiamo conosciuto fin qui. Continuiamo a ripetere che andrà tutto bene e in parte è vero, supereremo questa crisi, ma non andrà per niente tutto bene se alle parole non seguiranno atti e comportamenti completamente opposti a quelli che siamo stati educati a tenere negli ultimi settant’anni. Iniziamo dalla mobilità che ne racchiude parecchi di questi comportamenti. L’idea di libertà principale di noi poveri disgraziati nati dopo la seconda guerra mondiale è quella, ad esempio, di prendere la macchina e andare, viaggiare, spostarci, o addirittura prendere l’aereo e volare, o semplicemente di correre, comunque spostarci. In queste due righe si racchiudono, purtroppo, tutti i nostri comportamenti che oggi subiscono una limitazione impensabile soltanto pochi anni fa. Se dal punto di vista culturale le limitazioni alla nostra libertà di spostamento hanno viaggiato di pari passo con le limitazioni che nel mondo vengono messe ovunque al diritto degli esseri umani di muoversi dal loro luogo di origine, pensate a tutta la partita politica che si è giocata sulla pelle dei migranti, e che non riguarda più soltanto gli ultimi della terra ma tutti noi, dal punto di vista concreto del meccanismo industriale che struttura quell’idea di movimento, l’intera industria dei motori basati sul petrolio e sulla convinzione che le risorse naturali fossero illimitate si è rivelata una follia con conseguenze gravissime sull’inquinamento e sullo stesso futuro del pianeta terra. Senza scomodare Jack Kerouac e il suo On the road, Sulla Strada, che descrive da un punto di vista alternativo il principio del viaggio come libertà ed esperienza di comunità, anche i tranquilli borghesucci conformisti del secolo scorso hanno utilizzato la macchina e il viaggio come mito di riferimento della ritrovata libertà post bellica. L’intera società ha basato il suo sviluppo sul diritto di ognuno a muoversi, il concetto di viaggio è diventato sinonimo di conoscenza, al punto da venire inserito all’interno dei programmi scolastici, pensiamo ad esempio agli studenti dell’Erasmus. Ebbene, prima si è limitato il movimento di intere masse di esseri umani che si spostano da zone desertificate o oppresse dalle guerre, dalle carestie, dalla povertà. E tra le obiezioni che i difensori a oltranza dei confini portavano contro il diritto degli esseri umani a spostarsi c’era proprio quella che i migranti portavano le malattie. Oggi questo concetto di limitare gli spostamenti non è più applicato tra la ricca Europa e la povera Africa ma tra la ricca Bergamo e la povera Reggio Calabria, con la differenza beffarda che in questi giorni la malattia proviene dalle zone ricche e l’antidoto alla malattia potrebbe trovarsi nella ‘nduja. La conseguenza prevedibile dell’esperienza maturata con la necessità dell’isolamento per contenere il coronavirus sarà un ancor più rigido controllo sugli spostamenti delle persone in tutto il mondo. Accanto a nome, cognome, altezza e residenza dovremo esibire un certificato medico che attesti la nostra impossibilità di portare infezioni nel luogo dove ci rechiamo, ben oltre l’emergenza del coronavirus. E non soltanto tra nazione e nazione ma anche all’interno del nostro Paese. Perché se tra i progressisti non fa breccia l’argomento di limitare il flusso di migrazioni dovuto alla povertà, chi di noi se la sente di mettere in discussione il principio di assicurare la salute pubblica? Fin qui quel che riguarda il passeggero, ma chi si muove utilizza un mezzo, l’automobile principalmente, su cui l’industria del ventesimo secolo ha basato i suoi illimitati guadagni, senza curarsi delle conseguenze, dell’impatto devastante che quella produzione e consumo avrebbe avuto sulla natura. L’inquinamento per cominciare, che è la base reale su cui siamo costretti a ristrutturare l’idea stessa di civiltà, inquinamento che è alla base della diffusione di molte malattie, non direttamente del coronavirus, ma di certo molte malattie polmonari, che con la contrazione dei muscoli delle vie aeree restringono le vie aeree stesse. E il coronavirus trova proprio nei polmoni il punto d’attacco principale, mortale per le sue conseguenze, nell’organismo umano, vie polmonari indebolite da anni di fumi tossici respirati nelle città. Però come sempre guardiamo il dito e non vediamo la luna, limitiamo la circolazione di esseri umani ma continuiamo in una produzione industriale letale dove i mezzi di spostamento basati sulle energie alternative a quelle fossili occupano uno spazio ancora infinitesimale rispetto al gravissimo pericolo accertato dell’industria basata sul petrolio. Si prendono misure autoritarie, che subiremo tutti nel futuro prossimo, senza mettere in discussione il modello di produzione che ha indebolito il nostro corpo e la nostra libertà concreta di movimento con la falsa illusione di incrementarla. E’ il capitalismo bellezza, diranno i soloni del liberismo selvaggio, facendo finta d’ignorare che il modello liberale da cui deriva quel tipo di economia aveva promesso ai suoi adepti la libertà individuale contrapposta alla libertà virtuale di una massa immaginaria irregimentata nei sistemi collettivisti. Quella libertà del ventesimo secolo che qualche storico aveva definito “il secolo breve” si sta trasformando nella prigione a cielo aperto di questo secolo che già al suo esordio sta diventando il secolo “greve”, pesante e grossolano nelle facile soluzioni che ritiene di porre ai danni sanitari e sociali senza modificare il modello di produzione che ci ha portato di crisi in crisi a questo blocco generale di libertà e salute.
