LETTERE DA UN PAESE CHIUSO 20- LE PICCOLE PATRIE

LETTERE DA UN PAESE CHIUSO 20- LE PICCOLE PATRIE

Non parliamo di numeri, perché oggi, proprio il venerdì 13, i numeri sono davvero brutti. Ieri sera ho fatto duetelefonate che sono diventate un appuntamento fisso e affettuoso. Una con un prete della prima zona rossa, un altro con un anestesista della stessa zona. Come va, cosa non va, come stiamo. Io gli racconto di Milano — sempre meno, devo raccontargli del mio isolato, ma senza il traffico capisco che ha chiuso Linate, nessun aereo decolla – loro mi raccontano di quel che succede. Il medico mi ha detto che la cosa più devastante è veder morire le persone da sole, senza un parente accanto. Il prete mi ha detto che la cosa più difficile è curare a distanza le anime di famiglie costrette in gabbie in cui c’è tutto, ma da tanto tempo non ci si interroga sul senso della vita. Io gli racconto delle guerre, o dei miei guai medici – gli interessano più le guerre, ma il prete prega per me – e poi, cialtrone come tutti i giornalisti, racconto a uno le storie dell’altro, perché non si conoscono. Per sdebitarmi, anche una barzelletta. Tipo quella friulana sull’appassionato frequentatore di osterie improvvisamente casalingo: ” ieri sono stato a casa con mia moglie. Sembra una brava persona”. Ridiamo, ma qualche volta abbiamo anche pianto.Ieri mi è arrivato un breve filmato dal mio Friuli, chiuso ormai da confini sbarrati con Austria e Slovenia: la foto di ieri era il confine di Savogna, sembrava un posto di blocco balcanico. In quel filmato un’automobile della protezione civile girava per le strade deserte della sera e l’altoparlante ripeteva l’invito a stare a casa. Spettrale, e molto istruttivo. Perché, che io ricordi, a Tolmezzo a quell’ora, da quando non ci sono più le caserme, le strade sono un deserto comunque. Ma quei volontari carnici, facevano un po’ più del loro dovere: non si sa mai. Se saremo tutti così, ognuno nella sua città o nel suo paese, ciascuno nel proprio quartiere o nel cortile, se saremo così ce la faremo.Sono passate, qui a Milano, tre settimane dall’inizio, mi pare. E’ andata sempre peggio fino all’altro giorno, quando Codogno è diventata una cittadina convalescente, senza contagi. Ne abbiamo messo un po’, di tempo, per renderci conto, stretti tra l’incredulità e la speranza, i pareri degli esperti e le liti dei politici, e un’amministrazione comunale che manda ancora in giro gli ausiliari del traffico a fare multe per divieto di sosta. Ma che sia guerra ce lo dice il responsabile della chirurgia a Brescia, lo ripete il medico di Bergamo. “arrivano 60, 80, 100 pazienti al giorno, tutti gravi, di ogni età”. E così, tardi, ci siamo messi a muso duro, dietro la mascherina, i negozi hanno chiuso senza aspettare il fischio finale, Milano è una città morta perché vuole vivere.Si vince o si perde insieme. Tutti tutti, perché quelli che si attardano in preoccupazioni per la borsa, o in sottovalutazioni allegre, o in bandiere di partito, non hanno capito niente. Intendiamoci: è dura non fare critiche al governo. Ma è un altro dei sacrifici da fare, e secondo me è una lezione che deve imparare anche l’opposizione: remare insieme, poi si vedrà, i conti dopo. Del resto uno può sfogarsi oltreconfine, quelli che ci hanno chiuso le porte in faccia, che hanno compatito, noi lazzaroni italiani, che ci hanno negato le mascherine. Il segretario dell’OMS, quel carrozzone delle Nazioni Unite, ha annunciato che è pandemia: azzeccacerotti, lo avevamo capito da soli, anche se non avevamo comprato i Pandemics Bond . La Gran Bretagna, quanto a incertezze e confusione, pur essendo il paese del vero e unico Churchill, sta come noi quindici giorni fa, la Francia anche. La Merkel che con noi non è mai stata carezzevole, non lo è stata neanche con i suoi: rischiano milioni di contagiati. Negli Stati Uniti Trump prima fa la dottoressa virologa – solo un’influenza – poi sospende l’esercitazione militare che aveva emozionato i dietrologi di tutta Italia, e prepara un paese dove il tampone costa qualcosa come tremila dollari a ogni malcapitato. Forse Giuseppi potrà restituire l’errorino: ciao Donalf. E noi ? Noi forse stiamo imparando, a caro prezzo, a non urlare, a fare o stare fermi. Quando penso al personale sanitario, a tutti quelli che lavorano per distribuire cibo e medicine, ai carabinieri e poliziotti, ai giovani che con un cartello si offrono per fare la spesa ai vicini, a quelli della Comunità di Sant’Egidio che assistono casa per casa, persino ai cronisti che girano lasciando dietro la scrivania direttori dai titoli roboanti, ecco io che fatico a cantare l’inno nazionale (non mi ha mai convinto che siamo così pronti alla morte, specie i giocatori della nazionale, ma anche noi tutti), penso che un po’ di fratelli e sorelle d’Italia ci sono. Penso che siamo tornati a bordo, cazzo, dopo lo smarrimento iniziale, il tempo delle fotografie con le brave e precarie ricercatrici dello Spallanzani, una photo opportunity mentre al ministero avrebbero fatto meglio a studiare l’epidemia, a immaginare gli scenari peggiori, a preparare loro e tutti noi. Certo: eravamo un’umanità impreparata. Stiamo recuperando un tempo perduto. Troppi tra noi, piccole panchine di saggezza e di affetti, piccoli cassetti di diplomi e di fotografie in bianco e nero, piccoli scatoloni di pantofole e maglioni anche d’estate, quel tempo l’hanno perso per sempre. Siamo tutti in una stessa casa, carabinieri o fraticelli, uomini di televisione o politici, l’anziano ignoto e il calciatore famoso. E nella stessa casa, a fatica, stiamo smettendo di litigare, o di fare il festino, ce lo chiedono medici e infermieri. Forse lo faremo vedere, agli altri, di che pasta siamo fatti. Siamo abituati a perdere, lo abbiamo fatto tante volte nella storia e nella cronaca, da El Alamein a Marzabotto, dall’ alluvione di Firenze al pozzo di Vermicino. Ma siamo tornati ogni volta, anche se più vecchi, con meno memoria, più fragili. E, certo, non è facile per nessuno, e specie per i giovani, dopo decenni in cui gli abbiamo insegnato a schifare ogni esempio di silenzioso orgoglio, fossero i marò o Fabrizio Quattrocchi. Adesso i 10,100, 1000 morti non sono a Nassirija come qualcuno sperava, sono nei nostri ospedali. Persino il Presidente della Repubblica nel messaggio di fine anno dice Paese, non patria. E probabilmente aveva ragione, perché non si usano parole fuori uso, desuete. A me basta che invece di togliere la benda per non darla vinta al boia, mettiamo una mascherina, stiamo in casa, non c’é bisogno di eroi, fuori dagli ospedali, per dimostrare che alla fine è dura averla vinta su di noi. Specie quando ci chiedono di combattere dal divano di casa.Ho la scorta. Di mascherine no, ma di piccole patrie sì. Milano e il Friuli, Napoli, Pantelleria. In Friuli sono capaci di svegliarti, la notte, per dirti di non uscire di casa, con la forza di quelli che non sono mai diventati terremotati di professione. A Pantelleria ho telefonato ieri. Nessun caso: il punteruolo rosso delle palme era arrivato, il coronavirus no. Un po’ di allarme, perché un funzionario della ASL di Trapani é passato sull’isola il 18 febbraio, prima di rivelarsi positivo. Un po’ di incertezza, per quelli che sono scesi a fare la quarantena sull’isola, nei dammusi. Ma adesso quell’isoletta dalla grazia scontrosa che ricorda Trieste, più vicina all’Africa che all’ Italia, è l’ unico pezzo del paese dove il virus non c’ è. Ci vedremo quest’estate, ci conto. Mi dicono che il picco dei contagi, a Milano, arriverà a fine mese, non voglio dire numeri perché è venerdì 13. Ma se è così, la festa della Liberazione, ad aprile, pur rispettando le tradizioni, sarà liberazione da qualcos’altro. Ne usciremo migliori ? Non lo so, qualcuno a insultare la brigata ebraica ci sarà sempre: nella mia infanzia li chiamavamo gli scemi di guerra. Vedremo se sarà ritornato il tempo delle strette di mano e degli abbracci. Se no un bicchiere di zibibbo, e via.