IL VIRUS CHE STA INSEGNANDO A RAGIONARE IN TERMINI GLOBALI ANCHE SUL CONCETTO DI POVERTÀ E VULNERABILITÀ
A ben guardare la cosa terribile, l’aspetto dirompente di questa pandemia è il suo effetto rivelatore, germogliato su una ambiguità: perché una pandemia, per la sua portata globale, spinge nella fase iniziale a credere di essere tutti uguali di fronte all’ineluttabile, trasmette l’impressione di sentirsi per una volta tutti svantaggiati allo stesso modo, tutti detentori del monopolio di eguali porzioni di sofferenza. E invece questa percezione diffusa non fa altro che allargare il già ampio gap che ci rifiutiamo di considerare fattivamente come un problema connaturato al nostro mondo: perché proprio nel momento in cui vengono sciolte le briglie emotive del disagio da quarantena, proprio nel momento in cui ognuno di noi si sente in diritto di rivendicare la propria insofferenza, l’unicità della situazione in cui si trova, riemergono con prepotenza tutti i simboli di questo enorme malinteso, tutti i segnali che ci ricordano una differenza permanente, tanto in tempi di salute quanto in tempi di pandemia, che è la stessa differenza tra essere poveri in Italia ed essere poveri in Sud Sudan. La quarantena in centro, la quarantena in cantina; la quarantena in terrazza e la quarantena su un albero: la quarantena in piscina e la quarantena nel fango; la quarantena in cascina e la quarantena in un tombino; la quarantena autonoma e la quarantena dipendente; la quarantena igienica e la quarantena avvelenata; la quarantena calda, soffice e la quarantena violenta, pericolosa ogni minuto di più; la quarantena come indesiderato privilegio e l’impossibilità fisica di una qualunque quarantena. Proprio nel momento in cui tanti individui cresciuti in società individualiste pensano di riacquistare il diritto di poter dire “non ho tempo di pensare a chi sta peggio nel mondo, già normalmente, ma ora meno che mai”, quegli stessi individui vengono inesorabilmente messi di fronte all’inevitabile rivelazione del loro privilegio connaturato, un privilegio che anche durante una pandemia – un evento globale che dovrebbe riportarci tutti alla nostra radice ultima – rende palesi le differenze tra uomini e donne di un mondo che era diseguale prima ed è diseguale ora, anche quando riserva a tutti dosi di difficoltà. La felicità non ha gradi, livelli o gerarchie: si adatta alle aspettative e al contesto, assume colori diversi. La sofferenza e la tristezza, invece, procedono per accumulazione di miseria e prescindono dal resto: e le nostre tristezze non avranno mai abbastanza combustibile per pareggiare quella di chi vede la pandemia come l’ennesimo e ordinario episodio di miseria, sofferenza, tristezza accumulata. Finché non inizieremo a ragionare in termini globali, anche sui concetti di povertà e vulnerabilità assoluta, e non solo relativa, finché non inizieremo a produrre risposte globali, ci ritroveremo sempre di fronte a questa discrasica, amara realtà. Più amara per alcuni che per altri, a dire il vero.
