COME SARÀ, DOPO LA TEMPESTA?

Raccontino della notte. ‘Piove ancora?’, mi domanda l’amata Minnie al risveglio. Lei è al caldo, sotto la trapunta. «No mamma, non piove più, ma c’è ancora un vento freddo». La notte, invece, era caduta molta pioggia, il vento sbatteva sulla finestra della mia camera da letto. Non dormivo, lo ascoltavo. Una parola mi si è accesa in testa: ‘Tempesta’. Ho ripensato alla supplica di Papa Francesco: «Dio, non lasciarci in balìa della tempesta». L’ho rivisto, il Santo Padre, in quella immagine commovente, mentre camminava solo, sotto la pioggia e nel silenzio di una piazza San Pietro deserta, dove alle sei del pomeriggio di venerdì, ci ha dato un appuntamento mondiale. E a tutti i fedeli ha chiesto di unirsi spiritualmente, attraverso i mezzi di comunicazione, per dar voce ad una invocazione comune in questo tempo di emergenza sanitaria di dimensioni planetarie. In salotto, tra le molte fotografie, ve ne è una che ritrae Adelina e me in piazza San Pietro. La scattò la Minnie in uno di quei viaggi in cui portava le sue bimbe in giro per l’Italia. Il papà Piero era mancato da uno, forse due anni (io con le date sono una frana, a differenza dell’amata Adelina). Ricordi. Torno al maledetto presente. «Dopo la tempesta, come sarà?», mi domando. Lo sappiamo che non sarà più come prima, fino a quando non si troverà il vaccino per annientare l’invisibile bastardo o almeno la cura che ci metta una pezza. «Per il vaccino ci vorranno 18 mesi, ma, allora, ci sarà l’immunità di gregge», mi dice un caro amico anestesista. L’ho incontrato davanti all’edicola sotto casa, nella mia fugace uscita mattutina per acquistare i giornali alla Minnie, che nell’era tecnologica, come tutti i nostri cari nonni, preferisce leggere notizie, approfondimenti, editoriali sulla carta stampata. «Io non faccio che intubare ed estubare, non hai idea di che cosa sia là dentro», mi racconta l’amico anestesista, che ‘là dentro’, nell’ospedale Maggiore, ci lavora 14 ore al giorno. «E mi lavo le mani 50 volte al giorno». Me le mostra, le sue mani. Rosse, rossissime. «A noi non fanno il tampone, perché se poi risulti positivo, devi stare a casa. Il dramma è che io, seppur ‘bardato’, potrei essere una bomba asintomatica ed infettare i pazienti. E come me, tutti i miei colleghi». «Dopo la tempesta, come sara’?». Nelle telefonate serali e notturne con le amiche e gli amici (ho scoperto che siamo in molti a dormire poco) si prova ad immaginare il quarto dopoguerra all’invisibile bastardo (il terrorismo di matrice islamica è stato il terzo dopoguerra ). Sarà il 22 aprile, sarà fine aprile, sarà maggio, è presto per dire quando ci lasceranno uscire dagli ‘arresti domiciliari’ (scusate, deformazione del settore che seguo). Ed anche quando ritorneremo nelle strade e nelle piazze, non potremo ancora abbracciarci. Quanto mi mancano gli abbracci. È metà pomeriggio. Arriva il bollettino di guerra giornaliero. In provincia di Cremona +81 contagi, 3.869 il totale. Purtroppo le persone morte sono 23. Ad oggi, ne piangiamo 576. Spaventoso. Mi affaccio alla finestra della sala da pranzo-redazione. Guardo il mio Torrazzo. Il silenzio della città e il Silenzio suonato a mezzogiorno nell’Italia listata a lutto, per commemorare tutte le vittime. «Come sarà, dopo la tempesta?». Quando ci diranno che si potrà uscire, raccomandandoci cautela, io stanotte un luogo affollato me lo sono immaginato, seppur ancora con le mascherine e ad un metro e più di distanza. Non sono i bar e nemmeno i ristoranti. Ci torneremo, certo. Il mio luogo affollato sono i nostri cimiteri, ora chiusi con il lucchetto per colpa dell’invisibile bastardo. Torneremo a pregare sulle tombe dei nostri cari. E di tutti i nostri caduti in questa guerra disumana senza l’ultima carezza dei propri familiari, senza un funerale. Porteremo un fiore sulle loro tombe. Non piove più, il cielo è azzurro, il vento ha smesso di soffiare. «Che la tempesta stia un po’ passando?». Scusate il disturbo.