FARI SPENTI SU LAMPEDUSA
A dirla con il linguaggio del meteo, soffia un vento che tocca i trenta chilometri l’ora, il mare è molto mosso con onde che sfiorano i due metri, e le previsioni non dicono che le cose siano destinate migliorare. Per dirla con il linguaggio degli isolani, oggi non è arrivata la nave da Porto Empedocle, né arriverà nei prossimi giorni, e tutti fanno incetta di carne, latte e verdura nel supermercato.Per dirla con il linguaggio giornalistico d’emergenza, nel Centro di prima accoglienza sono rimasti solo sessantatre immigrati, e non si prevedono sbarchi, finchè il tempo resta così.I riflettori sono spenti, su Lampedusa.Si riaccenderanno quando qualcuno, tra i ventimila in attesa sulle coste nordafricane, tenterà la traversata di 180 miglia, dalla Libia a qui. Ma si riaccenderanno solo se sarà una tragedia, o una sbarco di massa. Il resto è routine, silenziata dalle navi di Mare Nostrum, che intercettano qualche imbarcazione, soccorrono, e smistano verso le coste siciliane, dove i riflettori non si sono mai accesi.Da gennaio a oggi la Guardia Costiera ha salvatoquattordicimila persone. Gli ultimi tra loro sono le poche decine restate qui, perché devono testimoniare in qualche processo contro gli scafisti. Sono pochi eritrei e qualche siriano. Non potrebbero uscire dal Centro, ma lo fanno attraverso qualche varco nella rete, e i militari lasciano fare. Non hanno mai dato fastidio a nessuno, fanno qualche passeggiata nella via centrale, senza più le tute da ginnastica che li rendevano dei superstiti per sempre, vestiti come ragazzi qualunque. Come segno di solidarietà, in fondo alla via centrale, il monitor dell’Archivio Centrale, un’associazione culturale che stampa vecchie foto di Lampedusa, cartoline e calendari, invece dei documentari destinati ai turisti, trasmette film in aramaico, registrati apposta per loro. Loro si siedono su una panchina, e passano il tempo.E’ un limbo, Lampedusa. Il monumento di Mimmo Paladino, sugli scogli nella punta più a sud dell’isola, disegna una porta dell’Europa, a memoria di chi ha perso la vita in mare. Ma un monumento uguale potrebbe stare sulle scogliere a nord, a mostrare che l’Europa è lontana. E l’Italia anche, nonostante tutto l’apparato di emergenza, gli elicotteri e le motovedette, le navi e i sommozzatori, i concerti di Baglioni e di Avitabile, le visite dei politici e del papa. Non è solo la nave che non arriva, o il costo del biglietto aereo.Da decenni nessuno nasce sull’isolachiedi ai ragazzi e sono tutti nati a Palermo o altrove:sull’isola non c’è un ospedale,e l’ultimo passo verso un reparto maternità è il check in dell’aeroporto, una scatola di vetro costruita con i fondi dell’Unione europea, nella speranza di un moltiplicarsi dei charter estivi. Certo che il Papa ha portato conforto. E però il campo sportivo dove ha abbracciato la comunità, liberato delle reti di recinzione per fare spazio, adesso non è più omologato per le gare sportive, così la squadra di calcio gioca gli incontri casalinghi a Mondello, la spiaggia di Palermo (con sollievo delle squadre ospiti, che a Lampedusa, in caso di maltempo, rischiavano di restare per giorni, una trasferta eterna…). Metti le scuole: non c’è un edificio adatto a contenere tutti, e i ragazzi delle medie fanno lezione il pomeriggio. Al mattino le aule sono occupate dal liceo scientifico, l’unica scuola superiore (se vuoi fare il classico, devi lasciare l’isola).In Argentina tutto questo ha un nome: sentido abandonico , cioè un sentirsi abbandonati, lontani dall’Europa, lontani da qualunque cosa.Sei vicino solo agli sbarchi, accolti con solidarietà marittima, con un senso di pietà concreta, e con la paura che spaventino i turisti e meritino solo un Nobel che non sfama nessuno.Gli sbarchi, sì. E’ curioso che in questo scoglio lontano da tutto la politica internazionale sia come un bollettino meteo, sia cronaca quotidiana molto più diretta che a Roma o Milano. Cade un regime, e arrivano. C’è una guerra, e arrivano. E’ un essere al centro delle notizie, quando sull’isola sbarcano le parabole delle televisioni, e i cronisti rivolgono ai passanti sempre le stesse domande, che mi ricorda una vecchia storia delle Falkland Malvinas. Stavo a Buenos Aires, in quei giorni, e mi colpì la storia di una famigliola canadese. Che, nonostante il Canada sia tanto vasto quanto quieto, era ossessionata dall’idea di un conflitto nucleare. E cercò sull’atlante un’isola non tropicale, dove si parlasse inglese e dove fosse possibile allevare pecore, che era quello che volevano, e fosse lontana dalla confusione del mondo. Il dito si fermò sul puntino delle Falkland. Dove, qualche anno dopo, si trovarono in mezzo alla battaglia tra argies e marines di Sua Maestà britannica.Roma è lontana, come Bruxelles. Come il sentire degli italiani, sempre nervosamente contrapposti tra paura dello straniero e umanitarismo di facciata, dentro tutti, chissenefrega come vivranno dopo. Affrontare l’immigrazione clandestina come si fa con un fenomeno naturale, cercando di capire come incanalarla nella legalità, come suddividerla tra i paesi europei, come stroncare i negrieri (sapete quanto valeva il barcone del 4 ottobre, con i suoi 366 morti ? Un milione di euro, se fate il conto del costo pagato da ogni passeggero ai mercanti), come reggere l’urto ? Ma se, grazie a una lasse dirigente affaccendata su se stessa non siamo capaci di reggere un ciclone sardo, un’alluvione genovese, una frana alpina….L’unica certezza è che, con questo tempo, è l’inverno a spegnere anche l’audio, dopo i riflettori. Fino alla prossima primavera, quando tireremo fuori titoli e fazzoletti, commozione e sorpresa, sotto le luci della ribalta.
