HEZBOLLAH IN LIBANO E LA THAWRA
Un fatto privato per provare a spiegare un fatto pubblico. Hezbollah in Libano e la thawra [roba lunghissima, se interessa prendetevi le ferie] Chi mi conoscesa quando detesti mettermi al centro della scena quando parlo di cose legate al mio lavoro: gran parte di quel che mi accade e mi coinvolge in prima persona quando mi occupo di un dato argomento lo tengo per me, spesso non lo condivido nemmeno coi miei famigliari, fa parte della mia intimità, della mia dignità e storia personale, e non penso sia utile o giusto porsi sul palcoscenico quando si parla di cose che prescindono dalla propria esistenza, come fanno ahimè molti colleghi, che sembrano non poter raccontare nulla senza pronunciare la parola “io”. Faccio questa premessa perché vorrei parlarvi di un argomento che però stavolta non posso affrontare senza citare un fatto personale utile a introdurlo, che è accaduto due anni fa, e che mi ero promesso di tenere per me, fino ad oggi, imbeccato anche da chi mi vuole bene e pensa sia in qualche modo utile. Verso le 14 del 2 ottobre 2017, ad Hret Hreik, nel sud di Beirut, sono stato fermato da alcuni uomini dopo aver scattato una foto ad una moschea, che in teoria sapevo di non poter scattare, ma che ho fatto mentre ero preso dai miei pensieri, camminando, tenendo il cellulare in una mano e un dattero nell’altra, con la testa tra le nuvole. Nel momento in cui sono stato fermato da questi tre uomini all’ingresso di una moschea, sapevo benissimo cosa stava accadendo e per quale motivo mi si teneva lì. Mi trovavo a Dahye, la periferia a sud di Beirut che ingloba 4 municipalità e che è conosciuta per via del fatto che la presenza di Hezbollah è molto radicata e visibile. Ero tranquillo, nel senso che mi aspettavo che le mie foto venissero cancellate e che poi mi si lasciasse andare. Questo è quello che il ragazzetto dai tratti indiani che mi ha fermato sembrava lasciar intendere, salvo poi ripensarci e dirmi “vieni con me”. Così, in pantaloncini e maglietta, senza documenti con me, l’ho seguito nel parcheggio della moschea. Senza dirmi una parola, il ragazzo mi ha consegnato pochi metri più in là a due uomini sulla sessantina, apparentemente guardiani del parcheggio. Mentre mi prodigo ad ammettere l’errore, sapendo bene come il corso della storia recente da queste parti abbia fermentato un radicato sentimento di paranoia e sindrome di accerchiamento, i due uomini mi chiedono di svuotare le tasche e consegnargli tutti i miei effettivi (portafogli, una bustina con alcuni souvenir sciiti, un libro, il cellulare), che infilano in una busta. Poi, sempre senza dirmi nulla, o meglio facendo finta di non sentire (o non capendo) le mie accorate spiegazioni (in inglese), mi accompagnano pochi metri più in là, all’interno del classico casotto del portiere di uno stabile. Ci sono due piccole stanze, uno dei due uomini apre la porta della seconda e mi fa cenno di entrare. Entro, e mi chiude dentro. La stanza è grande come un piccolo bagno, a occhio meno di dieci metri quadrati, c’è un tappeto per la preghiera per terra, un ventilatore a muro, una sedia e una finestra che non affaccia fuori ma su un’altra stanza che sembra un ufficio, essendoci due scrivanie e un computer. Rimango lì almeno mezz’ora, accendendomi varie sigarette (quelle me le avevano lasciate) e insultando me stesso per la leggerezza; finché non decido di affacciarmi e rivolgermi all’uomo che mi aveva portato lì, il quale ogni tanto entra in questo presunto ufficio e si mette a leggere della roba. Gli chiedo ovviamente quale sia il problema e quanto mi toccherà stare là, ma lui è di poche parole e mi dice semplicemente di aspettare. Passa un’altra mezz’ora, forse qualcosa in più, interrotta solo dal surreale ingresso di un ragazzo che avrà 16 anni, il quale apre la porta, mi sorride e mi dice – in inglese – “non preoccuparti, nn avere paura”. Non ne ho, ma mica perché sono sto cuor di leone, semplicemente so già come funziona da queste parti, non ho nulla da nascondere e so già che anche nel peggiore dei casi nessuno mi farà del male. Non so, però, quanto mi toccherà ancora stare lì dentro, non ne ho idea. Finalmente, dopo un’oretta e mezza, l’uomo del parcheggio apre la porta e mi invita ad uscire. Ha la busta coi miei effettivi in una mano, e quando mi guida verso il suo motorino parcheggiato là fuori, penso d’istinto che voglia accompagnarmi a casa, tenero. E invece succede una roba di cui a distanza di due anni ancora nn mi spiego la funzione: saliamo sul suo cinquantino modificato – io dietro e lui davanti con la mia busta in mano -, usciamo dal garage, facciamo 50 metri, arriviamo a un check point dell’esercito che dice che la strada è chiusa, facciamo il giro della rotonda di fronte, e torniamo al garage di prima. Non rimaniamo in sella per più di 1 minuto, 100 secondi al massimo, e faccio solo in tempo a vedere il ragazzo che mi aveva fermato mentre pulisce la strada antistante la moschea. Con mia somma delusione vengo invitato a tornare nella stanza di prima, quella dentro al casotto. Stavolta ci rimango non più di 3 minuti, perché poi arriva un ragazzo che avrà la mia età, parla inglese e mi invita a uscire e ad appoggiarmi con la schiena al muro appena ripitturato di bianco. Eseguo, e con una piccola macchina fotografica digitale mi scatta una foto alla faccia da 20 cm, presumo con l’obiettivo di creare un effetto foto tessera. Poi mi fa sedere ad una scrivania nella stanza adiacente a quella in cui ho passato quasi due ore, e inizia a farmi domande di rito, alternandone di vaghe e di circostanziate: che fai, come mai qui, dove abiti (palazzo, scala, piano), chi è la tua padrona di casa, che lavoro fai, ecc. Poi, se non erro (è passato del tempo), mi invita a tornare nell’altra stanzetta una terza volta, oppure no, mi confondo con la seconda volta. Fatto sta che dopo pochi minuti mi si accompagna nuovamente all’uscita del casotto: ci sono vari motorini parcheggiati ma sopratutto c’è un Suv nero, coi vetri oscurati e col motore acceso. L’uomo sulla sessantina mi fa cenno di entrare e, mentre mi accingo a farlo, dal Suv fuoriesce una montagna umana, un culturista di 1,90x200kg di steroidi, in bermuda e maglietta attillata, la testa rasata, gli occhi cerulei, la barba lunga e quasi bionda. Mi guarda e sorride calorosamente, nel modo in cui sorride chi sta accogliendo un cugino lontano che non vede da tanto tempo, invitandomi poi ad entrare in macchina mentre il sessantenne gli passa la mia busta. Entro dentro, sul sedile posteriore, mentre in quello anteriore del passeggero si siede lui, accanto ad un autista che è invece vestito col completo nero ed una camicia bianca col colletto alla coreana. Chiudono le portiere mentre – anche qui – inizio a pensare che vogliano gentilmente accompagnarmi a casa (o almeno all’uscita della periferia, sulla statale per Saida) dopo gli accertamenti. Mi accorgo subito che non è così perché la macchina anziché percorrere la strada principale prende dei vicoli. Nel frattempo, l’atmosfera si fa rilassata, il gigante è di buon umore, e mi dice in inglese “welcome. And don’t worry, Ana (io) Hezbollah”. Poi, mentre procediamo non so dove, mi chiede se per caso sono interessato ad hashish o cocaina. No grazie, per oggi basta così. Poi rilancia col calcio, mi dice che a lui piace la Juventus, ed io gli dico che a me la Juventus nn piace per nulla, sono tifoso della Roma e abbiamo un problema con la Juventus. Mi viene quasi il desiderio di proseguire nel bizzarro convivio, se non fosse che dopo 5 minuti di tragitto la macchina si ferma alla fine di un vicolo cieco, dove c’è un garage. Scendiamo, braccio di ferro mi dice gentilmente di seguirlo (i toni sono quelli di un amico che vuole farti vedere una cosa che ti piacerà), entriamo in questo garage al cui interno c’è una scaletta a chiocciola, e che conduce alla porta di un appartamento. Bussa per almeno un minuto, finché non apre un ragazzo di circa 25 anni, in camicia e pantaloni neri, al quale dice una cosa che nn riesco a capire. Mountain man gli consegna la mia busta e si congeda, salutandomi quasi con affetto. Il ragazzo in camicia nera – Ahmed – mi dice con garbo di fermarmi li, e mi passa lungo tutto il corpo il metal detector. Accertatosi che non ho una cintura esplosiva addosso, mi dice di seguirlo. Entriamo in una stanza disadorna, come se fosse stata sgomberata o in procinto di essere arredata, nella quale ci sono solo due divani, una poltrona e un piccolo pulpito di legno. Io mi siedo sul divano e lui sta in piedi di fronte a me, chiedendomi subito se ho bisogno di qualcosa, da bere o da mangiare. Poi inizia con le domande, non prima di scusarsi: si, si scusa, mi dice una cosa come perdonami per questo trattamento ma ti assicuro che nn ti facciamo nulla, non siamo terroristi come dite in Europa, e se avessi dei problemi non ti farei vedere la mia faccia. Ad un certo punto quasi si lamenta, non dico che si rattrista ma il suo viso esprime rammarico, mentre mi dice “perché in Occidente Non capite che nn siamo terroristi, che noi combattiamo l’isis e al Qaeda?”. Io lo assecondo, anche per relativa convinzione, nel senso che nn ritengo hezbollah una formazione terroristica, e nn mi serve essere loro “prigioniero” per dirlo. Le domande che poi mi fa, in un inglese quasi perfetto, spaziano su quasi tutto lo scibile umano. Si parte con quelle di rito, in gran parte già rivoltemi dal ragazzo di prima, che forse ripete per vedere se mi contraddico. Dopo una mezz’ora esce dalla stanza, mi chiude a chiave dentro (non prima di avermi lasciato le sue sigarette, dopo avergliene chiesta una perché avevo finito le mie), e così rimango da solo. Sono perfettamente cosciente di dove sono finito, con chi e perché, sono consapevole che lui e qualche altro suo sodale sta setacciando il mio cellulare in una stanza vicina, e sono un po’ stanco, dopo quasi tre ore. Mi sto anche pisciando addosso, e se all’inizio riesco a non pensarci perché distratto da quella che sospetto essere una telecamera nascosta nella lampada al neon sopra di me, ad un certo punto nn ce la faccio più, mi alzo e inizio a bussare, chiedendo di andare in bagno. Lo faccio per 10/15 minuti buoni, finché il ragazzo non arriva, apre la porta e mi chiede scusa una seconda volta, dice di non avermi sentito, e mi accompagna in bagno. Chiude a chiave da fuori, sebbene nel cesso (molto peggio dei cessi chimici all’Oktoberfest) ci sia una sola finestra grande come un pallone da calcio e che affaccia su un cortile interno. Mi libero la vescica, busso, lui riapre la porta e mi riaccompagna nella stanza. Chiude a chiave e si allontana di nuovo. Dopo un’altra mezz’ora buona torna, col suo ulteriore bagaglio di domande: iniziamo a parlare di politica partendo dai miei viaggi nella regione, mi chiede dove sono stato e dove non sono stato, non sembra suggestionato quando gli parlo della mia frequentazione dell’Iran, e poi attacca con una sorta di apologia di cui non capisco del tutto il senso: il ragazzo mi ha sotto la sua custodia, sono stato a tutti gli effetti sequestrato da persone che non lavorano per la sicurezza interna libanese, sono io quello che deve spiegare cosa faccio lì e perché ho scattato quella foto in quel posto, cioè il posto del Libano in cui la parola “spia” è di gran lunga più evocativa. E invece, il tono in cui mi parla è lo stesso di chi in amicizia vuole spiegarti una cosa che secondo lui nn hai capito. Mi spiega che è successo diverse volte che un europeo dall’aria ordinaria si rivelasse una spia (israeliana, sottinteso), così come è accaduto che una donna dai tratti occidentali (probabilmente dell’Isis, a suo dire) volesse farsi esplodere lì vicino. Mi dice che sono tenuti a fare sto lavoro, e poi va anche oltre: “lo sai perché stiamo in Siria?”. Io gli rispondo con formalismo, “perché siete alleati di Assad”. Lui dice “no, perché combattiamo l’isis, che ci vuole morti tutti, che vuole invadere anche il Libano, e che poi fa anche attentati da voi” (un argomento molto utilizzato da quelle parti, il secondo). Mi rendo conto in quel momento che stiamo discutendo, lo stiamo facendo in modo rilassato, tanto che mi sento istintivamente di dire che “riconosco la legittimità dei vostri timori, sapevo bene di non poter scattare foto liberamente ma ero sovrappensiero, per cui ora sono a disposizione per ogni accertamento, non ho nulla da nascondere. E non c’è bisogno che mi parli di quello che fate, io ho sempre compreso il senso della resistenza contro Israele, però onestamente penso che sia stato un errore combattere in Siria oltre Qalamoun e Qusair (cittadine siriane al confine col Libano)”. Glielo dico, immaginando la sua risposta. Accenna un sorriso canzonatorio, mi risponde col disincanto che riserveremmo agli incantati, come a dire “eh, sapessi quante cose nn sai, sei ingenuo, se pensi che abbiamo sbagliato”. Una cosa del genere. Poi continuiamo, mi chiede del mio lavoro e lì mi sento un po’ intimorito. Non per lui, quanto perché in quel momento non ho il visto di lavoro e temo che – vista la collaborazione tra agenzie di hezbollah e quelle della general security libanese – lui o chi per lui possa comunicarlo alle autorità, facendomi passare problemi col Visto. Cerco di spiegare una cosa tipo che sono un giornalista ma non sto lavorando, sono lì sopratutto a studiare arabo, e non mi occupo di Libano, semmai di altri paesi della regione. Finiamo, anche qui, a parlare di calcio, e prendo atto del secondo hezbollahi tifoso della Juventus. Tuttavia mi tira un po’ su il fatto che conosca e menzioni Totti tra i primi giocatori italiani che gli vengono in mente. A quel punto si è fatto buio fuori, saranno le 19-20, non ho l’orologio con me. Esce di nuovo dalla stanza, lasciandomi dentro, chiuso a chiave. Prima di uscire mi chiede se ho voglia di mangiare qualcosa per cena. Gli dico no grazie, e mi rendo conto che questa domanda forse nasconde la possibilità che mi si voglia tenere lì per tutta la notte. Aggiungo che dovrei andare a cena più tardi e lui mi risponde con un sorriso, aggiungendo “hai fretta di andartene eh?”. Mi imbarazzo e dico No, figurati, prendetevi il tempo che vi serve ma se per caso ci mettete poco, poi dovrei andare a cena. Ripiego su un cappuccino (ci ho rinunciato a chiedere espresso in Libano, a Dahye meno che mai), me lo porta, e mentre lo bevo in solitudine mi rendo conto che questo è il primo cappuccino che ordino e bevo del tutto in vita mia, visto che di norma nn mi piace, nn sono abituato. Un italiano che beve il primo cappuccino della sua vita a Dahye. Notevole. Saranno le sigarette, sarà sto cappuccino (non male), ma devo pisciare di nuovo. Quindi mi alzo, inizio a bussare, e pure stavolta nn ricevo risposta per alcuni minuti. Staranno con le cuffie ad ascoltare le conversazioni del mio telefono? Boh. Dopo un po’ Ahmed torna e stavolta sento io di dovermi istintivamente scusare per la sensibilità della mia vescica. Mi fa andare in bagno dicendomi no problem e poi torniamo dentro. Per la prima volta, mi dice “abbiamo quasi finito”. Poi se ne va di nuovo, e io produco una bestemmia da stress. Mi accendo l’ennesima sigaretta e aspetto. Quando torna, le sue domande si fanno più specifiche e fanno riferimento a cose che ha letto sul mio cellulare, sopratutto conversazioni con amici siriani ma anche altro. Al tempo, non ancora in pensione, mia madre lavora all’ambasciata americana a roma, per cui in mail ho i suoi messaggi da mamma apprensiva, inoltrati da un indirizzo che termina con “state.gov”. Ricevo anche una inutile newsletter dal Dipartimento di Stato, e sono pronto a rispondere a domande che intendano approfondire la questione. Me lo aspetto. Domande che invece non arrivano: parliamo sopratutto delle cose su whatsapp, alternate ad altre domande su quel che faccio lì, le stesse di prima, anche qui (credo) per vedere se mi contraddico. Ogni sessione di domande dura una mezz’ora, intervallata dai suoi soggiorni nella stanza vicina, che invece arrivano anche a un’oretta. Alla fine – sono circa le 23.30 – Ahmed rientra, ha una macchina fotografica in una mano e una lavagnetta nell’altra. Me la consegna e mi invita a tenerla tra le mani tipo banner. Sulla lavagna una scritta recita: “Lorenzo Forlani – 2 – October – 2017”. Mi fa una foto, e se la riprende. A quel punto è finita, Ahmed mi dice che possiamo andare. Prima di andare a prendere la busta con la mia roba mi dice di non farmi vedere più in zona (in futuro lo ignorerò, perché Dahye è un quartiere che mi piace), che sono tempi pericolosi, e che se dovesse succedere ancora una cosa simile non è detto che mi si riservi la stessa gentilezza. Non è una minaccia ma nemmeno una rassicurazione. Mi consegna la busta e mi chiede di controllare che ci sia tutto, io controllo e do’ l’ok, quindi usciamo insieme. Fuori è buio pesto, la rumorosa Dahye dorme, e succede la seconda cosa che non capisco del tutto: alla fine del vicoletto ci attende una jeep nera con motore acceso, noi ci avviciniamo ma a pochi metri da essa Ahmed mi intima con urgenza di abbassarmi e sdraiarmi sotto una macchina parcheggiata lì. Eseguo con agilità, sto 10 secondi sdraiato di fronte a un tubo di scarico, poi mi dice di rialzarmi e finalmente mi fa entrare nella jeep, congedandomi con la raccomandazione di accendere il cellulare solo quando sarò fuori dalla macchina. L’autista – dal quale mi separa una tendina nera – guida per cinque minuti stando in silenzio, in sottofondo un religioso salmodia dei versi alla radio, e alla fine mi dice “scendi”. Sblocca le sicure, apro la portiera, scendo, lui si dilegua nel buio e io mi ritrovo sulla statale. Quando accendo il cellulare – che nel frattempo era all’1% di batteria e si spegnerà in mezzo minuto, a ora di pranzo stava all’80%: chissà che minchia ci hanno fatto – noto subito un particolare. Sulle due telecamere ci sono due piccoli adesivi verdi, segno che la paranoia cui accennavo ha delle dimensioni persino inaspettate, se un tizio come me li induce a questo livello di cautela. A Dahye ovviamente tornerò, più volte, perché lì ci sono amici e persone straordinarie, che mi trattano da amico anche quando non lo sono affatto e non ho fatto nulla per loro. E a differenza di quanto accaduto spesso nelle periferie cristiane, devo dire, nessuno mi chiede come prima cosa di che religione sono (forse lo danno per scontato). Forse è difficile a credersi ma è così. Perché ho dovuto esporre sulla pubblica piazza un fatto che fino a stamattina era per pochi intimi, e nemmeno per i miei datori di lavoro, nemmeno per l’ambasciata italiana? Perché contraddico la regola morale di non parlare di me, di non mettermi al centro della scena? Per tanti motivi ma anzitutto perché credo che la mia esperienza (ed altre avute in seguito, ma mi fermo qui) sia utile a comprendere un segmento di quella che definirei la “galassia hezbollah”, la quale si articola su più piani. Lo faccio perché sinceramente buona parte delle cose che so, di cui sono venuto a conoscenza studiando nel mio piccolo la teoria e la realtà pratica, devo tenermele per me, e d’altro canto la quasi totalità delle cose che leggo su hezbollah – di qualunque segno – sono assai inaccurate oppure del tutto false, spacciate ahimè come vere. Cosa racconta questa mia tutto sommato simpatica esperienza (certamente occorsa anche ad altri eh, ma per me è utile perché la incrocio con quello che già sapevo e con quello che ho appreso in seguito) ? Diverse cose. Anzitutto, che Hezbollah non è un’entità monolitica. Anzi, che Hezbollah probabilmente non è nemmeno una entità precisa per come la intendiamo noi, e non si esaurisce ne’ nel partito politico ne’ nelle milizie (organici e volontari) che hanno combattuto contro Israele e negli ultimi anni in Siria. Hezbollah secondo me è allo stesso tempo un partito, una milizia, un ambiente sociale, un tentativo di indirizzare la comunità sciita, una causa politica (la muqawama, cioè la “resistenza” contro Israele), una narrazione, un marchio, un welfare parallelo connesso ad un controllo discreto ma capillare del territorio, una periferia del territorio e della mente, uno stile di vita, un immaginario a disposizione. Tutte queste cose insieme, difficili da delimitare. Spesso gli stessi libanesi non se ne rendono conto, ed è frequente parlare con amici che non hanno mai messo piede a Dahye ma ne parlano come un luogo lugubre, appoggiandosi ad assunti assorbiti da giornali occidentali. Quando sono stato fermato, e finché qualche ora dopo non sono stato portato al cospetto di Ahmad, non ero nelle mani di Hezbollah. E, allo stesso tempo, stavo nelle loro mani da ben prima di scattare la fotografia. La narrazione prevalente a Dahye, ma anche in tutto il sud del Libano a maggioranza sciita, è quella del perenne stato di allerta, della perenne diffidenza, della perenne convinzione (giusta o sbagliata) che il pericolo e le minacce possano arrivare da chiunque e in modo inaspettato. Al livello più basso, per la strada, è facile imbattersi nel primo livello della galassia di hezbollah: residenti che riconducono la parola Hezbollah anzitutto all’idea di “resistenza” da una parte e “irriducibilità” (a fronte di percepite minacce esterne) dall’altra. In pochi fanno davvero parte di hezbollah come soggetto strutturato, magari ricevendo pure uno stipendio, e allo stesso tempo tutti ne sono parte (e in molti affermano di farne parte per darsi un tono, in contesti in cui spesso quello è l’unico “tono” che puoi darti), tutti ne plasmano la narrazione e l’ambiente sociale. Alcuni hanno con Hezbollah lo stesso rapporto che gli ultras – o talvolta proprio gli hooligans – hanno con la propria squadra del cuore, con la sola differenza che nel caso del calcio non esiste la possibilità che da tifosi si diventi calciatori professionisti. A questo livello in particolare, il rapporto che la gente ha con hezbollah può sembrare talvolta dissociato: sostegno alla resistenza, adorazione per i suoi simboli e per Nasrallah – una istituzione a se stante, distinta dal movimento di cui è segretario, come detto più volte – ma talvolta ostilità al partito o ai suoi membri, ai suoi amministratori locali e deputati, tutti percepiti come “organici” al sistema confessionale che genera corruzione (e che peraltro la leadership di hezbollah, per ragioni di favore demografico, cancellerebbe domani). Anche cosi si spiega il fatto che i teppisti che ieri hanno attaccato dei manifestanti pacifici a Beirut per “difendere l’onore di Nasrallah” e per sgomberare piazza e strade, temendo anche “infiltrazioni esterne nella protesta”, sono poi gli stessi che nei primi giorni della protesta stavano al fianco degli altri manifestanti (ero lì, alcuni li ho intercettati, specie quelli della prima sera di proteste che sono venuti a spaccare un po’ di roba a caso), o che il secondo giorno della protesta hanno attaccato gli uffici di funzionari locali di hezbollah nel sud (ne avete sentito parlare? Dubito). Non c’è contraddizione, per loro, perché vivono narrazioni diverse, a volte duplici: da una parte esponenti della porzione più povera e marginalizzata della società libanese, sensibile alle istanze sociali e alla lotta ai privilegi, specie se di natura “viziosa” ma non solo (certi hezbollahi non sono religiosi affatto); dall’altra, “difensori” (anche non richiesti, proprio ieri parlavo con un esponente incazzato come una bestia con questi “vandali che ci fanno passare per quello che non siamo”) di un marchio, di una postura (quella di Hezbollah) che travalica anche i confini nazionali, e che vive nel perenne dubbio – a volte del tutto fondato, bisogna dirlo – che alcuni paesi o soggetti tramino contro di loro. Non dimentichiamoci poi che a questo livello qui, ma anche salendo più in alto, sono tantissimi quelli che hanno la doppia cittadinanza e/o hanno passato periodi all’estero, sopratutto tra Stati Uniti, Canada, Sierra Leone, Brasile. Che non mi si fraintenda: quelli che ieri hanno attaccato i manifestanti possono essere definiti a pieno titolo supporters (non membri, come ho letto da troppe parti) di Amal (che spesso usa hezb come scudo, e la cui base di sostegno è ben più “scalmanata”) e di Hezbollah, che agivano in quanto tali. Non dimentichiamoci però che le persone hanno anche identità multiple: da una parte dovremmo quindi definire sostenitori di hezbollah anche coloro che hanno alimentato la vivacità della protesta nei primi giorni, finché non sono partiti dei cori che definivano Nasrallah “corrotto” (cosa che non è, mentre lo sono alcuni esponenti del partito e imprenditori collegati), dall’altra non possiamo fare finta di considerare quelli di ieri “solo” dei sostenitori di hezbollah: erano anche, allo stesso tempo, oltre ad amici e parenti accorsi da Dahye, residenti della vicina Basta al Tahta, modesto quartiere a maggioranza sciita che si affaccia proprio sul Ring, la fondamentale arteria bloccata dai manifestanti. Questa gente, anche per via delle incaute parole pronunciate da Nasrallah sabato scorso, e dal complottismo plateale delle notizie pubblicate su Al Manar, si è convinta che la protesta sia manovrata dall’esterno (o da alcuni soggetti endogeni, ostili a Hezbollah, che a dire il vero stanno tentando di accreditarsi, o magari ad inserirsi), sempre al netto di una notevole o ormai connaturata capacità di evocare il grande complotto, vero o presunto che sia. C’è al momento un solo elemento concreto che in parte spiega il loro atteggiamento: a Beirut, la protesta sta diventando sopratutto festa, una celebrazione della vita comune (con esempi virtuosi di gestione dello spazio pubblico, e lo Stato che dovrebbe prendere appunti), una sorta di sagra che ogni sera porta i libanesi e il loro irreplicabile entusiasmo in piazza, tra balli, canzoni ingiuriose contro i politici e musica sparata in cassa dritta. La protesta, che rimane senza leader e senza un ufficio di comunicazione (che servirebbe a noi giornalisti per capire chi dice cosa, sennò è un delirio, specie coi social), parallelamente a questi sviluppi sul campo sembra poi essersi concentrata sull’avanzamento (direi imposizione) di istanze del tutto politiche, e non più, ahimè, socio economiche. Lo dice il (fuorviato per il momento, secondo me, perché un conto è la speranza e un altro la realtà, un conto le procedure formali e un altro i comportamenti delle persone: il Libano è fatto sopratutto di villaggi, in cui la gente oggi tende a votare ancora secondo le solite logiche) riferimento alla fine agile, disinvolta e indolore del confessionalismo e lo dice la vaghezza con cui si allude e invoca la fine della corruzione (come se un problema che deriva da un atteggiamento diffuso, oltre che da meccanismi oliati, potesse essere risolto con un cambio di dirigenza, dall’oggi al domani); lo dice il fatto che a differenza di quanto accaduto ad esempio in Tunisia nel 2011, quando alcuni mesi fa un uomo (George Rizk) si è dato fuoco perché non riusciva a pagar la scuola ai figli, nessuno è sceso in piazza da nessuna parte; lo dice la tendenza, riscontrabile sui social, a stigmatizzare chi viene dal sud un po’ come farebbero a pontida; lo dice, sopratutto, il fatto che le prime tre/quattro richieste emerse dalla piazza hanno tutte a che fare con le istituzioni (il governo, il parlamento, la presidenza della repubblica, elezioni anticipate) e con il “vaffa” a noi molto familiare, anziché con istanze sociali, precise proposte (o precise critiche/accuse) per la risoluzione di problemi urgenti, concreti, universali, che rendono questo paese visibilmente malato, o anche ultimatum per la risoluzione degli stessi. Non amo generalizzare e non sono ostile alle legittime richieste di una classe media di cui peraltro faccio più o meno parte ma è evidente che da almeno una settimana in piazza ci va chi può permetterselo. Quelli che non possono, in piazza ci vanno appunto a cercare di vendere della roba, oppure non ci vanno proprio. Non come prima, non come i primissimi giorni, in cui nel “bene” (i canti contro l’establishment) e nel “male” (la distruzione congiunta di vetrine di appartamenti di lusso, i roghi) il druso dello chouf evidentemente vicino ad un certo ambiente stava al fianco del teppistello di 20 anni del sud con Ali tatuato sulla spalla e Nasrallah sul profilo Facebook, venuto lì per fare casino, fotografato e assecondato o sostenuto da tutti. Questo discostamento progressivo è andato di pari passo con l’aumento dei blocchi stradali e della discutibile gestione di alcuni di essi (gente che decide chi far passare vista coi miei occhi, o che secondo alcuni – non confermo – chiederebbe anche dei soldi), in un paese che ha già una viabilità ridicola, urticante, e in cui mediamente, in mezzo alla strada nel traffico infernale, si è un po’ fumantini (molto più che a Roma, che già basta e avanza). La verità è che anche all’interno della galassia hezbollah esiste una eterogeneità – difficile da irreggimentare o anche da descrivere, io stesso non so dove sto andando a parare – che cozza con la visione netta che si tende ad averne. Spesso le differenze emergono anche all’interno delle stesse famiglie: ho una coppia di amici in cui lei è andata spesso in piazza mentre lui ritiene tutto un complotto americano sin dall’inizio: ma attenzione, perché di solito è lei quella che non si perde mezzo carosello di Hezbollah, o che ascolta musica che celebra battaglie con israeliani, che parla di Nasrallah come fosse il suo fidanzato. Lui fa il pugile e non si interessa a molto altro. Di esempi ce ne sono tanti e anche voi potrete aiutarvi coi social: se si visitano i profili (circolati ieri) di alcuni dei teppisti di ieri, si nota che tra gli amici hanno tanta gente con la bandiera libanese sul profilo, e/o che pubblica video della protesta. È una cosa frequente da queste parti: la mia ex coinquilina siriana era ed è una fanatica di Assad, sua sorella (a cui è legatissima) è invece da sempre ostile (il suo ragazzo picchiato dagli shabbiha, che è anche il nome con cui scherzosamente chiama la “cognata”, che gli risponde “terrorista”), mentre un loro cugino è stato ucciso in battaglia 5 anni fa, dopo essersi arruolato con Jabhat al Nusra. C’è una distanza enorme tra la perentorietà e la nettezza con cui percepiamo le cose, cercando sempre un modo per dividere tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, e la rarefazione, l’irregolarità della realtà. C’è poi il paradossale rapporto con Amal. A livello di base di sostengo, hezbollah e amal si detestano, pur essendo di fatto – in parte – il primo originato dal secondo: la ragione risale all’accusa implicita ed esplicita negli ambienti di hezbollah di una passività (o qualcosa di più) di amal di fronte all’invasione israeliana. Questa accusa ha fatto un percorso strano, muovendosi dall’alto al basso: partita dagli ambienti della leadership, ha appunto attecchito alla Base. Se oggi i parlamentari di hezbollah e amal portano avanti una collaborazione, essenzialmente legata al fatto che amal si fa rappresentante degli interessi di hezbollah in Occidente, dove i parlamentari di amal possono viaggiare liberamente mentre quelli di hezbollah – sotto sanzioni – no, al livello più basso non sono infrequenti le scaramucce, rafforzate anche dalla tendenza – criticata dalla base di hezb – di quelli di amal di usare spesso le bandiere di hezbollah nelle loro azioni “dimostrative”, sia perché una parte di essi si riconduce a “hezbollah come resistenza”, sia perché può a volte essere un utile escamotage per “depistare”. Quando morirà il capo di Amal, Nabih Berri, c’è una possibilità che essa venga inglobata dalla stessa hezbollah, per mancanza di una leadership forte. Questo potrebbe anche rivelarsi dannoso per la stessa hezbollah, che nn avrebbe più dei “delegati legali”, che possano viaggiare in Europa liberamente e farne gli interessi in modo più o meno occulto. Hezbollah, come gli altri partiti, è molto radicato sul territorio, e innesca meccanismi di fedeltà da un lato genuina e dall’altro di tipo feudale. Ma a differenza degli altri partiti confessionali, paradossalmente, è meno minacciata dalla possibile (graduale per forza di cose, chi pensa il contrario è perlomeno un imbecille) trasformazione dello status quo (la fine del confessionalismo), proprio perché assume diverse dimensioni ed è sovrapponibile a diversi aspetti della realtà nella comunità sciita (e non solo). Tutte le sue dimensioni sono in un certo senso autosufficienti, vivono di vita propria: quella strettamente sciita, quella di milizia contro israele, quella di partito degli “oppressi”, quella di avamposto iraniano, quella di anti americano, quella di fornitore di servizi in zone in cui non esistono e tante altre. Togliete la dimensione cristiana ai Falangisti, e non rimarrà nulla. In generale, io trovo come minimo naive che la piazza in Libano si aspetti seriamente di poter polverizzare partiti di questa dimensione e radicamento in un batter d’occhio, tramite misure formali, o dando ultimatum di 48 ore, come se fosse un film, aspettandosi che gente che ha preso dei voti – e che in alcuni casi ha fatto pure la guerra – si faccia da parte con gentilezza e porga le scuse del caso. Non so se è ingenuità e basta ma la cosa mi preoccupa, perché sembra non considerare la complessità del tessuto sociale in Libano, la pericolosità delle potenziali reazioni, la complessità e diversità di posture che risiede anche all’interno di una stessa famiglia, dove c’è letteralmente un figlio che va a manifestare contro Aoun e una mamma che scende di casa per agitare i ritratti di Aoun. Questa protesta in Libano deve prendere una direzione chiara, radunarsi attorno a istanze che vadano oltre il “tutti via” (specie se al momento esistono idee, progetti, desideri ma non esiste una vision organica su come governare un paese) e vivere di realismo, non dimenticandosi della necessità di una vera riconciliazione, di un reale dialogo tra comunità (e tra classi) che è unico viatico per il futuro (e graduale, non coatto) venir meno dell’appartenenza comunitaria. Perché al di là del wishful thinking, le comunità esistono, sono vive e vegete, e molti dei loro componenti addurrebbero più di una ragione per continuare a votare su base settaria e mantenere lo status quo. La protesta secondo me deve insistere meno sul “vaffa” e più sulla necessità di vere e immediate riforme (d’altronde nelle fasi iniziali chiedevano “solo” riforme persino le piazze del 2011, che si rivolgevano a dittature e autocrazie che in Libano non esistono), non schiodarsi da esse, condurre azioni mirate anche come i blocchi stradali ma non su base quotidiana, perché il rischio è quello di rovinare tutto, polarizzando la società tra chi può permettersi tenere immobile il paese e chi, pur volendo, non può. Tra chi è interessato a cambiamenti tangibili, che gli migliorino un quotidiano difficile, e chi pur a regione crede semplicemente che i problemi possano essere magicamente risolto con un cambio integrale, quasi per magia, di una intera, gigantesca, decennale, ingombrante classe politica, che non sparisce spegnendo la luce nella stanza. Semplicemente, al massimo, non si vede. Deve capire le diverse sensibilità, perché alle stesse istanze si può arrivare ma ci si arriva spesso passando per strade e partendo da luoghi diversi, con tutto il bagaglio che ci si porta dietro. È lunga, è dura, ma non si creda che un paese con una tale storia di divisioni e livelli di fedeltà paralleli possa prendere una strada aperta da chi forse è più avanti nella concezione di una società laica, ma che non parte da così indietro come chi ha ancora molta paura del cambiamento. Ci sarebbero tante altre cose da dire ma mi fermo qui, altrimenti faccio prima a stampare tutto
