LETTERE DA UN PAESE CHIUSO 44-LA STRAGE DEI MEDICI
Stare dove la vita è ridotta a un filo sottile è traumatico ma può insegnare parecchie cose a un dottore.Enzo Jannacci, medico L’altro giorno ho detto che questa è la strage dei nonni. Ma avrei potuto dire che è la strage dei medici. E ormai sono talmente tanti che i loro volti e i loro nomi si sovrappongono. Medici d’ospedale, medici di base, medici pensionati tornati in servizio, medici che erano troppo giovani per morire. La morte di un medico mi ha sempre colpito, perché hai l’idea che possa percepire meglio di un malato qualunque quello che sta succedendo nel suo corpo, e quindi sia più spietata la diagnosi e più consapevole la fine.Ho provato a pensare ai miei medici, non a quelli da film o da televisione, no. Nè a quelli dei proverbi, o dei libri. Quelli veri, che mi hanno detto vada, o che mi hanno proibito qualcosa, o obbligato a medicine. A volte con distrazione, a volte con affetto, a volte esosi, a volte generosi. Ma tutti, non li immagini come gente che muoia, è come un prete che bestemmia, è contronatura. Ognuno pensi ai suoi, per dare un nome, un volto, un pregio o un difetto: per farli sentire uomini e donne come noi, non eroi di marmo che abbiamo sacrificato, e poi celebrato.Il primo è stato il dottor Maraschi. Mi ricordo ancora quando suonava, e io ero a letto con qualche influenza e mia madre aveva aperto la finestra per cambiare un po’ l’aria, e in quel turbinio di aria fredda e tepore malato, arrivava con una vecchia borsa di cuoio, una sciarpa e un profumo di dopobarba. Una cosa odiavo di lui: quel cucchiaio che si faceva prestare da mia madre e mi metteva in bocca, per guardare le tonsille o qualcos’altro.Tolte le tonsille, i medici sono come scomparsi dalla mia vita. Anzi, ero medico di me stesso: poggiavo il termometro per un momento sul termosifone, per saltare scuola. Da ragazzo l’unico medico era quello di Black Macigno, il dottor Salasso. Il secondo medico è stato da militare, al Car di Pesaro. Veniva come me da Udine, e prima ci conoscevamo di vista. Era alto, timido, con gli occhiali, e uno o due anni più di me. Si chiamava Gino Tosolini: era il cattolico più autentico che abbia conosciuto in quegli anni dissacranti. Ogni volta che ne ho avuto bisogno, di rado, ma anche ogni volta che ne avesse bisogno un amico, lui c’era. Con lo stesso sorriso timido, e la stessa voglia di capire che cosa provavi tu, oltre a quello che dicevano i libri che aveva studiato con rigore. Poi l’ho perso di vista, e so che ha lavorato a Udine, a Triste, a Potenza, ad Ancona (o in Ancona, come dicono i marchigiani). Si è guadagnato ovunque stima, rispetto, affetto, e so che ad Ancona, dove ha lavorato fino al suo ultimo giorno, gli hanno dedicato una sala, a Trieste porta il suo nome l’asilo dell’ospedale di Cattinara. Poi ho trascorso una vita senza medici, se non quelli che si occupavano di mia madre – Adinolfi, un mio compagno del liceo con cui litigavamo di politica, ma sempre con affetto –e quelli che mi hanno curato fratture da partite di pallone: nomi dimenticati, come le fratture. Quelli che ho conosciuto per lavoro. Il dottor Parenzan a Bergamo, con cui potevo parlare il dialetto istriano, i medici militari nelle missioni – una volta, a Beirut, incontrai una compagna del liceo diventata crocerossina, e destinata a sposare un paracadutista che aveva curato. Un medico con cui ho sempre litigato, ma cui sono affezionato e che rispetto, perché è uno che fa, come Gino Strada (è che avendo una visione sacrale del medico, come del giornalista o del giudice, mi pare non debbano fare politica. Ma Gino sostiene che è inutile curare i feriti se non fermi la macchina che li produce, e non è un cattivo argomento. Nonostante Tristan Bernard sostenesse che generali e medici entrano in Paradiso attraverso la stessa porta, quella dei fornitori).I medici di Sarajevo, senza anestetici. I primi giorni – credo fosse giugno, e l’assedio era cominciato a maggio- dormivo in quella che era stata una dependance diplomatica, piuttosto comoda. Quando diventò la sede dell’ambasciata americana, mi spostai in uno degli ultimi piani del grattacielo dell’ospedale militare, in un letto da ospedale e con coperte da ospedale, utili per le sere fresche di Sarajevo, ma scomode come un presagio, e dai finestroni entravano le luci della battagli attorno al cimitero ebraico. Scendevo le scale, la mattina, e sotto c’era la continuazione della battaglia: è stata la prima volta che ho visto dei medici piangere. Un medico in Africa, una sera davanti a casa sua, che stava in un ospedale protetto da grandi alberi, e sulla tettoia rimbombava un temporale da fine del mondo. Era un medico romano, della mia età, e dunque non più giovane, senza idealismi missionari. Prima di andare a dormire gli chiesi che cosa ci facesse lì, in quegli edifici bassi dove l’unica cosa che abbondava erano i pazienti. La prima parte della sua risposta forse potevo aspettarmela. Era la storia di un matrimonio andato a male, e la voglia di tagliare i ponti con quel passato. Ma poi aggiunse: “E’ che qui, alla fine, posso davvero fare il medico”. Cioè ? “Vedi, in Italia, ormai, tra progresso e contenziosi giudiziari si fanno esami su esami, non indovini nulla, tiri le somme. Qui non ho nessun laboratorio, nessuna macchina, poche medicine. Devo tirare fuori il meglio di me”. Gli ultimi medici sono quelli che si sono occupati di me, da qualche anno a questa parte: urologi, cardiologi, diabetologi. Bravi, ma iperspecializzati, ognuno ha il suo territorio, e ci sono confini più radicati di quelli di Schengen. Sorrido quando penso alla prima cardiologa, che era la moglie divorziata di un mio amico. Non mi fece neanche un sorriso, e prendendo nota del mio stile di vita scuoteva la testa, come a dire tale e quale il mio ex marito, siete tutti uguali. Il mio medico di base, la dottoressa Adriana. Per lei per anni sono stato un pessimo cliente, ora sto recuperando terreno. Per qualche estate ho fatto le grigliate con un medico triestino, che mi piaceva perché era gaudente. Facevamo sempre l stessa gag, brindando o accendendoci le sigarette: “Dottore, mi farà male ? “ , “ma, no, cosa vuoi che sia..”. Medici appassionati e medici stanchi, medici poveri e medici ricchi, medici che salvano e medici che sbagliano: c’è di tutto, come in ogni altro campo (ma i medici hanno un file tipo malogiornalismo? ) in cui pregi e difetti dell’umanità si sbizzariscono. Ne sono morti ottanta. I medici delle nostre vite, i medici delle loro morti. Nelle ultime settimane ne sono morti tre al giorno. Adesso ce la siamo cavata con un “eroi”, ma verrà il tempo della giustizia. Ma intanto il mio eroe personale ce l’ho. Il compagno di mia figlia, medico di terapia intensiva. La foto che vedete è lui che da dietro il vetro per la prima volta vede sua figlia, mia nipotina, gattonare. Voi direte: non vale, quello è un rapporto personale, famigliare, non professionale. No, questa fotografia mi cura più di una ricetta. Mi commuove, e sgrava il dolore, perché capisci che quello che hai perso nessuno te lo restituirà più. Mi riporta al buon senso, riducendo le mie lamentele al rango di capricci. Mi fa ragionare, cercando risposte non scientifiche: il mio Friuli è la regione meno colpita, al nord. Non è che questo ha a che fare, oltre che con il caso e con la disciplina degli abitanti, con la densità, con la distanza naturale delle persone ? Il Friuli Venezia Giulia ha una densità di 153 abitanti per chilometro quadrato. Il Veneto 267. La Lombardia 422. E il dilagare del contagio nel mondo latino, dalla Francia alla Spagna, mentre è più contenuto nel nord Europa, non ha a che vedere con quel nostro toccarci, baciarci, mettere le mani sul braccio o sulla spalla di un altro ? Ricordo quando lavoravo con la televisione svedese, in America Latina. Certe volte mi rendevo conto, allungando una mano, di rompere un bozzolo invisibile, di provocare un’imbarazzato disagio: hanno il distanziamento sociale di default. Mi indurisce, quella foto, mi prepara a un combattimento senza illusioni. Perché non mi aspetto tana libera tutti dopo Pasquetta, e dopo Fase 1 e dopo questo o quel suggerimento del Comitato Tecnico Scientifico. So che sarà finita solo quando quella foto non sarà un fermo immagine senza lieto fine, quando potremo varcare le porte, rompere i vetri, quando i figli piccoli potranno saltare in braccio ai giovani padri e quando i figli vecchi potranno stringere la mano di genitori vecchissimi che se ne vanno.E gli infermieri, direte voi, gli infermieri che contano 23 morti e 5500Le contagiati? Qualcuno che scrive in questa pagina, sicuro. E poi ? Sono in numero maggiore, e li ricordi solo quando vai in ospedale. I miei, a Milano, erano in gran parte latinoamericani, e mi divertivo a parlare spagnolo con loro. Oppure dell’Europa dell’Est. Ma se dovessi nominarne una, devo ritornare all’infermiera che mi portava a prendere aria sulla sedia rotelle, nel giardino dell’ospedale Cochin di Parigi, nel 1968, dove ero stato ricoverato per un’infezione al piede. Portava un mantello blu, e la crestina bianca, e mi sembrava di essere un ferito di guerre che avevo visto solo al cinema. E poi la fisoterapista che si battè per farmi recuperare l’uso della mano – rottura scomposta del metacarpo – quando già pensavo che sarei rimasto rattrappito tutta la vita, che non avrei potuto battere i tasti della macchina per scrivere. E invece eccomi qua, al tempo delle docili tastiere da computer.
