PARLIAMO UN PÒ DELLO STUDIO DELL’ HBR SUL “CASO ITALIA”
Ultimamente si è letto molto sulrapportopubblicato dalla Harvard Business Review in merito a come l’Italia abbia affrontato l’epidemia da Covid-19 e, in particolare sulle lessons identified e le lession learned derivanti dalla nostra esperienza.Il problema è che, come spesso capita, si è voluto spesso dare un valore politico ad uno studio tecnico, trasformando lezioni da apprendere per migliorare la gestione emergenziale in un manifesto polito a favore o contro questo o quello schieramento politico. Normalmente questo approccio è foriero di futuri inevitabili disastri. Vediamo quindi di fare un commento un poi più “apolitico”, anche perché, volendo proprio leggere il report, emergono responsabilità dirigenziali sia a livello centrale che periferico, in maniera del tutto politicamente trasversale.Occorre però una premessa importante: gli autori dello studio sono tutti e tre professori e/o esperti di business administration, il che definisce il taglio del loro lavoro, incentrato ad una valutazione della parte gestionale dell’emergenza. Allo studio, ad esempio, non hanno partecipato “tecnici” del versante sanitario, il che rende le conclusioni potenzialmente confutabili dal punto di vista medico.Ciò premesso, quali sono i limiti che lo studio individua nel sistema di gestione italiano?1) Sottovalutazione iniziale del problema, tecnicamente (pregiudizio cognitivo): nonostante l’esperienza cinese e gli avvisi di numerosi scienziati, la politica ha faticato inizialmente a valutare la reale portata del rischio. Lo studio cita, ad esempio un politico che nella fase iniziale si è recato a Milano a stringere mani (per poi risultare positivo al covid-19), ma in realtà le posizioni sono variate molto ed in maniera del tutto trasversale. Inizialmente nessuno voleva veramente chiamare la questione col nome “emergenza” e ci si preoccupava molto più delle ricadute d’immane che di quelle sanitarie. C’è da dire però che il medesimo errore è stato commesso pressoché ovunque l’infezione abbia man mano fatto comparsa, con la riproposizione passo per passo mutatis mutandis delle fasi italiane2) Limiti di un approccio graduale: il tentativo di optare per soluzioni via via più restrittive si è dimostrato, ex post, poco pagante ed anzi, in certi casi 8il studio cita quello della progressiva chiusura del nor Italia e la fuga verso il su), potrebbe aver contribuito alla diffusione del virus. Questa analisi, oggettivamente condivisibile come lezione per il futuro, va comunque rapportata con due fattori del momento:– ad ora, nonostante la pressoché totale consapevolezza (ad eccezione di qualche “terrapiattista prestato alla virologia” della tragicità della situazione, ci sono posizioni differenti circa l’opportunità della chiusura totale o della sua necessaria durata. Vi immaginate cosa sarebbe successo se il giorno 1 della nostra epidemia (per capirsi paziente 1-Codogno), il Governo avesse chiuso tutto, istantaneamente, a tempo indeterminato? probabilmente la rivoluzione. in altri termini, la pratica gestionale migliore, non è sempre quella possibile da attuare per altri fattori, sociali, economici o di altra natura;– la chiusura progressiva (prima della sola zona del lodigiano), fatta per tentare di isolare l’epidemia, è stata presa sulla base di una conoscenza fattuale sbagliata. Si pensava infatti che quello fosse effettivamente il paziente 1, quando in realtà sembra abbastanza conclamato che il virus fosse diffuso sul territorio perlomeno da settimane. La conoscibilità di questo dato sarebbe stato fattore determinate per una scelta differente 8e qui veniamo alla terza criticità emersa).3) Difficoltà per il sistema sanitario nel suo complesso a riconoscere (prima) e gestire (poi) i casi covid-19. Per fattori differenti, in parte probabilmente legati a protocolli “migliorabili”, c’è stata una difficoltà iniziale nel riconoscere la presenza del virus e, quindi, nell’isolarne repentinamente la diffusione. Il rapporto spiega ad esempio “che la presenza diffusa e inosservata del virus nei primi mesi del 2020 potrebbe essere stata facilitata dalla mancanza di capacità epidemiologiche e dall’incapacità di registrare sistematicamente picchi di infezione anomala in alcuni ospedali”.4) Difficoltà di trasferire le “best practices” da zona a zona. Il rapporto fa, ad esempio, il caso delle differenze nella gestione fra Lombardia e Veneto, evidenziando le carenze della prima, specialmente nel numero di tamponi effettuati e nella gestione dei pazienti in maniera domiciliare. Su questo punto c’è però da dire che, da punto di vista sanitario, si è spesso obiettato non tanto all’utilità quanto alla fattibilità pratica di una procedura di tamponi effettuata a tappeto o, comunque in modo molto più diffuso.certo è che il limitato impatto diagnostico derivante dal limite nell’uso dei tampone ha reso di difficile interpretazione i dati di cui si fatica a valutare l’attendibilità finale. Quando fra il dato ufficiale ed il dato probabilmente reale si tende ad essere fuori di un fattore 10, la gestione non può non risentirne.5) tendenza a “copiare” singole pratiche dall’estero, senza comprenderne la valenza elusivamente se inserite in un sistema complessivo di relazioni, dati, azioni. In sostanza la tendenza di semplificare le soluzioni con provvedimenti spot presi da pratiche altrui, senza una analisi complessiva dell’ambiente in cui queste pratiche funzionino e del perché li diano effetti positivi.6) lentezze burocratiche. e su questo almeno, da bravi italiani nessuno deve insegnarci nulla.In conclusione, una questione fondamentale: questi studi NON SONO E NON DEVONO ESSERE PROVE PER PROCESSI AL PASSATO MA INDICAZIONI PER MIGLIORAMENTI FUTURI, perché si basano su valutazioni ex post, spesso difficilmente esperibili sul momento. Peraltro se così non fosse, al fine di nascondere colpe passate, ci sarebbe una generale limitazione della diffusione di dati, con conseguente limitazione della ricerca nel complesso.
