CRONACHE DAL FRONTE (PUNTATA 26)
Ieri, rovistando nei miei cassetti, ho ritrovato per caso una manciata di passaporti. Miei, ovviamente, e usati, mica sono un trafficante.. Sono sopravvissuti non so come ai miei innumerevoli traslochi, a differenza invece delle fidanzate, che ho regolarmente perso, e di tanti amici che hanno preso strade diverse dalla mia. Ma non è (solo) per questo che mi è salito il magone. Il fatto è che. sfogliandoli e accarezzandone le pagine, cariche di timbri e di visti, di briciole di sigaro e di macchie di caffè, sono scivolato pian piano in una dolce catalessi, ad occhi chiusi e sul divano, cullato dal film della mia vita, o più precisamente di questi ultimi 30 anni passati in giro per il mondo a fare un lavoro che tanto mi ha dato (e che tanto si è preso, siamo pari). Purtroppo non ho trovato i miei passaporti più vecchi, da giovane rivoluzionario squattrinato e scapestrato, e mancano pure quelli blu da funzionario delle Nazioni Unite, quando cioè vivevo in Africa, tra il 1988 e il 1991. Gli altri invece ci sono tutti o quasi. E disegnano con una precisione commovente le strade che ho percorso, le mie passioni – l’Africa, prima, e poi il Medio Oriente – e pure gli incontri, personali e professionali, che hanno arricchito la mia vita. Ho pensato all’inizio di fare l’elenco dei tanti Paesi in cui sono stato. Ma ho subito desistito: perché, anziché rincorrere stupidi primati, mi è sembrato più gratificante sfruttare quest’occasione come una straordinaria macchina del tempo, su cui salire senza indugi per un viaggio nel mio passato. E così, toccando i tanti timbri della mia amata Costa d’Avorio, ho risentito nelle narici l’odore di cacao che mi accoglieva e mi stordiva quando scendevo dalla scaletta dell’aereo nell’ aeroporto di Abidjan. Uno sballo! Ho ritrovato il visto afghano dall’inchiostro sbavato che mi è stato rilasciato in Tajikistan, nel 2001, subito dopo l’11 settembre, quando i giornalisti di grido se n’erano già andati a New York e noi inviati di guerra ci siamo dati appuntamento lì, in attesa degli elicotteri del fu comandante Massud, pace all’anima sua, perché sapevamo che la vendetta degli Stati Uniti non avrebbe tardato. Ho rivisto infine la grafia incerta su quel maledetto timbro che in Liberia, nel 1993, mi costò la bellezza di 200 dollari, perché il miliziano che lo rilasciava era armato fino ai denti e non era il caso di protestare, a meno di non voler fare la fine di quell’americano – – l’unico bianco, oltre a me – che era stato schiaffeggiato e portato chissà dove. Alla fine, sceso dalla mia macchina del tempo, invece delle vertigini mi è venuto un pizzico di malinconia. Del viaggio, innanzitutto, del viaggio in sé e della magia che lo avvolge sempre, anche quando la distanza da percorrere è breve. E poi del mio zaino, inseparabile, che ne ha viste tante e non si è mai tirato indietro. Non so quando potrò di nuovo sentirmelo sulle spalle, solido e confortante. E non so nemmeno se potremo viaggiare ancora come un tempo. Ma ci siamo abituati ai lunghi e irritanti controlli di sicurezza introdotti dopo l’11 settembre e allora potremo anche abituarci alle nuove regole che ci daranno. Sarà quando sarà, ma in ogni caso per me sarà un gran bel giorno. N.B. In foto: Dettaglio dei miei passaporti sparsi
