I SOMMERSI RINCHIUSI IN UNA STANZA, NON ESISTONO. FINO A QUANDO?

I SOMMERSI RINCHIUSI IN UNA STANZA, NON ESISTONO. FINO A QUANDO?

I “sommersi” e le giornate in una stanza, ma per le statistiche dei contagi, loro non esistono: fino a quando ? ***Separati in casa da un mese. Bruno in una stanza, la sua compagna Ilaria nell’altra. Divisi da un muro, mascherati tutto il tempo: protezioni chirurgiche e mascherine sul viso, la cuffia in testa. E guanti a ricoprire le mani. Sembra esagerato? Non lo è. Il rischio del contagio è dentro le mura domestiche, nel loro caso. Per due settimane, dal 6 marzo, Bruno ha avuto febbre alta e i sintomi da coronavirus: mal di testa, dolori articolari, tosse stizzosa. «In mancanza di gravi crisi respiratorie nessuno lo ha visitato e nessuno gli ha fatto un tampone: gli hanno solo detto di rimanere isolato». E lui così ha fatto, dove ha potuto: nell’alloggio dove di solito vive con la compagna e il figlio di lei. Vista la situazione il ragazzo è stato spedito dal padre (ed ex marito). Ilaria Solari (54 anni) e Bruno Barbarini (50) si sono spartiti invece l’appartamento al Rubattino. «Nel frattempo un collega di Bruno è stato ricoverato per contagio conclamato ma neanche questo è bastato a intercettare l’attenzione degli operatori dei tanti numeri di emergenza cui ci siamo rivolti – racconta Ilaria -. Si sono limitati a raccomandarci di stare separati in casa, senza uscire dalle rispettive stanze. Pronti a chiamare l’ambulanza in caso di improvvisa mancanza di ossigeno». Dopo due settimane, il 20 marzo, a Bruno la temperatura è scesa sotto i livelli di guardia. Adesso, dopo quattordici giorni senza sintomi, la coppia era pronta a ricongiungersi. Invece no. Spiegano: «Disciplinatamente abbiamo richiamato i numeri d’emergenza per comunicare che Bruno era guarito e avevamo superato le settimane di quarantena. Ma invece di darci il via libera, a sorpresa ci hanno risposto che dobbiamo rimanere ancora divisi tra noi perché senza tampone negativo, non possono prendersi la responsabilità di farci uscire dalle stanze». Due settimane sfebbrati non sono una garanzia? «Questo porta con sé una serie di conseguenze pesanti: io non posso riportare a casa mio figlio né aiutare con la spesa la nonna. E Bruno non può rivedere i suoi ragazzi, che in tutto questo tempo sono rimasti dalla ex moglie». Hanno insistito per sottoporsi al tampone ma no, non glielo fanno, perché per loro il malato è guarito. Guarito, ma senza certezze. Un controsenso. Hanno chiamato anche il Centro medico Sant’Agostino, che promuove i test sierologici, ma è stato di nuovo picche: «La Regione non autorizza i laboratori privati ad effettuare test e tamponi». Un girone dantesco, «un labirinto in cui non si vede la fine. Altro che Il cielo in una stanza , provano a scherzare. Chiusi in camere separate, mascherati fino a data da destinarsi. «Nessuno ci concede la possibilità di fare un test e capire se abbiamo contratto il Covid, se siamo guariti, se siamo ancora eventualmente contagiosi». Si bussano da dietro il muro: «Ehi! Tu stai bene?». La loro storia è rimasta sommersa finora, e sfuggirà ai sondaggi anche adesso: quanti sono i milanesi che hanno contratto il virus e non sono stati censiti? Secondo alcune stime, circa duemila solo a Milano. Probabilmente di più. Vero è che recentemente sono stati attivati una app e le Usca (squadre di guardia medica armate di protezioni che visitano al domicilio, allertate dal medico di base). Ma intanto – obiettano i due – «madri, padri, mogli e mariti, figli e fratelli per settimane se la sono sfangata da soli».