LETTERE DA UN PAESE CHIUSO 46- IL GALELLI, CAMERAMAN
Non ti chiamerò Franco, proprio adesso. Per me sei stato sempre Galelli e basta, come tra compagni di scuola o di naja. Il cognome: il Galelli. Abbiamo lavorato insieme tante volte, prima e dopo Onna, il terremoto di undici anni fa. Ma per me eri Brescia. Quando c’era qualche notizia da quelle parti, tu eri più di un bravo cameraman, eri un giornalista, e scusa se ti degrado. In municipio, nel capannello di curiosi, in mezzo al cordone dei carabinieri era meglio far andare avanti te, e non solo per la corporatura: ti conoscevano tutti, e tu conoscevi tutti. Eri bravo, rapido, e trasformavi quella tua andatura imponente, solenne, in un gesto svelto, quando accendevi la telecamera. Ma la cosa che mi piaceva di più di te erano il sorriso e l’ironia, quella sottile presa di distanza per metterci al riparo da rabbia, commozione, indignazione. Credo che abbiamo seguito insieme la storia di Hina, la ragazza pakistana che voleva essere una di noi, uccisa dopo un consiglio di famiglia. Non era una storia facile da raccontare, ma il tuo accento bresciano, e quel pudore che si intuiva dietro una smorfia, ci ha aiutato a renderla meno difficile.Non so cosa scriverà di te oggi Il Giornale di Brescia, ma è certo che se ne va un pezzo di storia della provincia, un testimone del suo tempo, con la forza delle persone umili e orgogliose del proprio mestiere, e un’umanità camuffata dietro gilet multitasche, con qualche distintivo attaccato sopra. A quel mestiere voglio rendere omaggio, adesso che sarai in qualche posto a discutere di ottiche con Paolino Micai.Siete, cameraman, il volto serio del giornalismo, anche senza un Ordine, senza un tesserino, senza una mutua, senza un ente pensionistico (a dire la verità i cameraman RAI sono riusciti ad ottenerlo, quello status, e a ragione. Ma la RAI è pubblica, non sono soldi di tasca loro, gli editori sono privati). Tra le molte doti che vi sono richieste c’è quella di sopportare noi giornalisti, che spesso siamo prepotenti, alcune volte maleducati, e ce n’è che addossano i propri fallimenti al cameraman. Le volte che va bene, no, sono loro, siamo noi a firmare i servizi, e il cameraman torna al suo ruolo accessorio. Mi sono sempre sforzato di essere in altro modo, con voi. Ma non per bontà. Certo, conta che abbia fatto i mestieri più diversi, manovale edile o colatore in fonderia, e ho provato cosa vuol dire avere qualcuno sopra di te che se ne approfitta. Ma io l’ho fatto per interesse: senza di voi, il lavoro in televisione non sarebbe esistito. Sì, adesso uno gira con il telefonino, o con la sua telecamerina, e monta da sé i servizi: così va il mondo, e se la notizia è una merce, trattiamola come fossero automobili o lenzuola o qualunque altra produzione di massa: conta il numero, la velocità, il taglio dei costi. Poi se il giornalista non ha il tempo di pensare, di scrivere, di ragionare sulle cose, se il giornalismo diventa tutto uguale, senz’anima, attaccato ai tavoli e agli schermi, pazienza. Così, mi ricordo tutti i “miei” cameraman. Quelli degli inizi, il messicano Michael, e il finlandese Mikko, in America Centrale. Affascinante come po’ esserlo un messicano ebreo e alternativo l’uno, e bianco come un foglio bianco l’altro, sempre scottato dal sole in mezzo alle tragedie del Salvador. Una volta eravamo soli io e lui, in auto, di ritorno dalla valle di Morazòn e a un posto di blocco della guerriglia, molto improvvisato, ci spararono. Lui era seduto dietro, per riposare un po’. L’automobile corse un po’ sul bordo polveroso della strada, con me rannicchiato a provare di governare il volante senza vedere nulla. Scesi dall’auto a bracci alzate, ma incazzato, urlando contro quelli che avevano sparato : “Prensa ! Prensa !”. Mikko si era sollevato dal sedile, ed era riuscito a non diventare pallido neanche davanti a una situazione così. Mohamed il cameraman del Kuwait, piccolo e con un inglese così perfetto che stentavo a capirlo. Bob, il cameraman australiano di Sidney, che aveva nostalgia di Melbourne, la sua città. L’ultimo cameramen, Ibrahim, in Siria, più piccolo del kuwaitiano, ma la stessa passione nel venire a sbirciare in montaggio per sapere se eri contento del lavoro. Ho telefonato ai miei cameraman di sempre, ieri. Garo, il mio operatore armeno, confinato in una bella casa alla periferia di Gerusalemme, perché in casa nella città vecchia c’è sua moglie operata di tumore e non vuole farle correre rischi di contagio. “Cazzo”, ho detto. Ma mi ha rassicurato: “vedi, per la Pasqua dovevano venire degli amici a trovarci. E avevo riempito questa casa di vino, whiskey, arak. E adesso non verranno, sono da solo, ma non mi lamento”. Ho telefonato a Igor, l’orso dei Balcani. Mi ha detto che se la cava perchè ha l’uliveto sotto casa, a Capodistria, e passa lì tutto il giorno. Era un grande compagno di avventure, un ottimo cameraman, ma anche un mago della tecnica. Abbiamo parlato dei nostri guai fisici e mi ha detto: “Ma sai quante pressione fa uno stent sulle arterie ? Trenta atmosfere”. Io non so neanche la pressione delle gomme delle auto, Igor. “Allora ci vediamo, facciamo come quei vecchi che si ricordano i vecchi tempi. Magari ci dimentichiamo le storie così ogni giorno sono nuove”. Salvo La Barbera, in Sicilia, fa il volontario. Ogni tanto penso a chi sta dietro alle immagini dei giornalisti o delle sale di terapia intensiva, mi chiedo se sono i tanti con cui ho lavorato, o se sono nuovi. Nessuno li considera eroi, e quando qualcuno cade non è vittima del dovere o del lavoro. E’ meglio farci un sorriso sbieco, andiamo, Galelli.Sono stato a casa tua molti anni fa, tuo figlio era un bambino. Non sapevo che avesse realizzato il tuo sogno: imparare il tuo stesso mestiere. Vedo che ha scritto sulla tua pagina FB: “Hai combattuto, forte e tanto. Nessuno avrebbe mai detto che un leone se lo sarebbe portato via un virus visibile solo al microscopio, nessuno. … Non posso dire che mi lasci un grande vuoto dentro, no. Lasci un grande vuoto dentro perché non ci sei più, certo, ma di te ho tutto. Perché tu per me eri tutto”. Una volta ti avevo fatto una battuta, perché tutti ti chiamavano Gallo. E io ti dissi che preferivo Galelli, perché mi ricordava un motorino della mia infanzia, il Garelli, che noleggiavamo la domenica, era un motore instancabile e ti portava ovunque. C’è sempre un Galelli in pista, anche se non è più Franco.
