LA SETTIMANA DEL PENTIMENTO

Come è noto, l’anglosfera (ivi compreso il suo socio onorario, l’Olanda) è stata l’ultima ad inoltrarsi sulla via della quarantena (o, più esattamente del “lockdown”, “chiudere tutto”). E questo per diversi motivi nobili e meno nobili: attenzione alle libertà individuali, timore di arrivare spiazzati quando ci sarà la ripresa, visioni del coronavirus in termini di malattia e non di contagio, teoria del gregge, sottovalutazione del problema e sopravvalutazione delle proprie capacità di gestirlo e così via.Oggi, però, queste diverse e contraddittorie pulsioni si sono riassunte in un interrogativo di carattere generale. E non a caso, grazie all’Economist che, nella sua qualità di grande sacerdote della democrazia liberale (tener sempre presente che, in questo caso, come in altri, è l’aggettivo a “sovra determinare” il sostantivo, N.d.A) è l’interprete più acuto e sofferto delle ragioni della sua caduta come anche il più assiduo nel cercare i percorsi di un suo possibile quanto improbabile ritorno.La rivista guarda con particolare interesse a quanto sta accadendo negli Stati uniti, dove a una crisi sanitaria devastante si accompagna una crisi economica dalle prospettive inquietanti: due mesi fa il ministro del commercio Ross si fregava le mani davanti alla pandemia cinese, convinto che il suo ulteriore aggravamento avrebbe riportato in America i posti di lavoro che aveva perso; oggi si teme che la ripresa del Dragone, in netto anticipo rispetto a quella negli Usa possa causare a questi ultimi un danno irreparabile.E’ in questo quadro che l’alternativa affidata dall’Economist alla riflessione dei suoi numerosi e influenti lettori in tutto il mondo potrebbe essere riassunta così: per uscire dalla crisi occorre, a un certo punto, fare una scelta precisa tra le ragioni dell’economia e quelle della salute pubblica.. Spinta all’estremo e nell’azione concreta è la scelta tra il riaprire tutto, rischiando l’esplosione del contagio o il chiudere tutto, rischiando il collasso dell’economia.A quale prezzo? Secondo i calcoli del giornale, riferiti agli Stati uniti, la “strategia economica” comporterebbe la morte causa coronavirus di almeno un milione di persone; mentre quella “sanitaria” si tradurrebbe in un danno economico cifrabile in 66 mila dollari a testa per ogni cittadino americano.Un calcolo che contiene in sé la soluzione del problema: l’obbligo, per uno stato sovrano di far prevalere gli interessi generali del paese su quelli individuali (e, in questo caso, anche quelli dei molti sui pochi).Una conclusione che, peraltro, viene lasciata in sospeso. E non solo per ragioni morali o di principio: sacralità della vita umana, difesa dei diritti dell’individuo di fronte al prepotere dello stato e delle sue ragioni, futilità autodistruttiva della pretesa di gestire la crisi nel proprio esclusivo interesse nazionale; ma anche per precise ragioni di fatto.Primo, perché l’America è pur sempre una democrazia. E in una democrazia è impossibile che una maggioranza di cittadini si converta all’idea, che sia necessario condannare a morte qualcuno per far prosperare qualcun altro. E, ancora, perchè in questa democrazia la data del voto è scritta nella costituzione: un giudizio di Dio cui Trump non si potrà sottratte, con la forte probabilità di un complessivo fallimento e sul piano economico e su quello della salute pubblica.Attendiamo, dunque, fiduciosi (senza o magari con il punto interrogativo). Il partito di Orban non gode della maggioranza assoluta dei consensi. Ma ha potuto ottenerla, e largamente, in parlamento grazie ad un sistema maggioritario non dissimile da quello tuttora sostenuto dai padri nobili della seconda repubblica (Prodi, Veltroni e via discorrendo). Ciò gli ha permesso, grazie al concorso di un piccolo partito di destra, di far passare, oltre la necessaria maggioranza dei due terzi, una legge che gli consentirà i pieni poteri, in tutti i campi, senza limiti di tempo e senza il controllo del parlamento stesso. Avrebbe potuto ottenere anche la quasi unanimità se avesse soltanto accettato di porre un limite di tempo all’esercizio della sua dittatura. Ma non ha voluto. E non ha voluto perché la scelta non comportava compromessi. “O me o il virus”. Queste le sue precise parole.Chi sia Orban lo sa lui e lo sappiamo anche noi. Ma cos’è anzi chi è il virus?Non certo la malattia o la sua capacità di diffusione; che, per inciso, hanno colpito l’Ungheria in modo ancora marginale (anche perché, ed è il caso anche della Polonia, in Ungheria non può entrare nessuno, salvo i suoi cittadini).E allora il virus da combattere con tutti mezzi è rappresentato dalle persone e dalle idee: migranti, liberal, èlites cosmopolite, magistrature indipendenti, dissenso, sindaci, sindacati e amministrazioni locali “non in linea”, ambientalisti, agenti di Soros, giornali; insomma tutto ciò che l’autonominatosi Salvatore della patria non riesce a gestire o a tenere sotto controllo. In punto di diritto e per ragioni oggettive nessuno e tanto meno con il pretesto della lotta al coronavirus; potenzialmente tutti.A questo punto, tutti a invocare l’intervento dell’Europa. E l’Europa si muoverà, affidandosi però a procedure e meccanismi che non porteranno da nessuna parte; e che saranno, comunque, caratterizzati da un’estrema lentezza. Mentre, nel frattempo, si moltiplicheranno gli imitatori. Negli Stai Uniti si moltiplicano le vendite di armi. E di tutti i tipi. Siamo a due milioni dalla pistola semplice al cannoncino uso personale.Non accadeva dalla fine del 2008; dai tempi dell’elezione di Obama. E’, dunque, come allora, l’incubo dell’anarchia e del rivolgimento sociale e la conseguente corsa all’autotutela.Ma è anche qualcosa di più. E’ l’angoscia collettiva, espressa e solo in America in centinaia di film del genere catastrofico, di un paese che si ritiene destinatario di un ruolo salvifico ed è perciò soggetto di una costante minaccia da parte di alieni di ogni tipo e si affida ad armatissimi supereroi per la propria difesa. Una pulsione in generale tenuta a freno dalle classi dirigenti. Ma non questa volta; questa volta Trump e i suoi elettori non hanno paura né dei batteri né della malattia; ma praticano e fomentano, con una irresponsabile e criminogena, la caccia agli untori. “Ti conosco mascherina”; ovvero un eroe del nostro tempo In questi giorni, si moltiplicano gli atteggiamenti e gli atti di solidarietà nei confronti del nostro paese. Lettere, articoli; ma anche arrivi di medici, mascherine e apparecchiature varie. Uno di questi è venuto dalla Russia, magari per conquistare qualche benemerenza; un interesse scontato e comunque non oggettivamente disdicevole. Un grazie, dovuto, e la cosa sarebbe finita lì: se non ci fosse stato l’intervento, propriamente delirante, di un articolista della Stampa. Un giornale molto bello e molto informato; ma però affetto dal morbo della russofobia.Ed ecco allora la denuncia di un complotto; la mascherina come subdola esca per mettere a repentaglio la nostra alleanza con il grande fratello americano; il materiale inutile per l’80% e così via. Seguono le proteste, scontate, dell’ambasciatore russo, accompagnate da una ramanzina del capodelegazione all’insegna del “chi di penna ferisce di penna perirà” (e pure in latino…); tono un po’ eccessivo ma di attacchi alla libertà di stampa nessuna traccia.Dopo, l’insurrezione generale a sua difesa e con toni sempre più eccitati. Un’insurrezione chiaramente fine a se stessa; e non a caso chiusa con la lettera del nostro ministro degli esteri: grazie per gli aiuti, ma la nostra stampa deve rimanere libera. Incidente chiuso.Ma allora perché? Diciamo che si tratta di un prezzo pagato al nostro grande alleato. Questi dovrebbe sapere e magari sa che la politica estera italiana, chiunque sia stato il suo titolare, da Gronchi/Fanfani sino a Renzi e Berlusconi, ha sempre avuto un occhio di riguardo per i rapporti con Mosca. La differenza è che prima della caduta del Muro ci permetteva di praticarli apertamente mentre oggi ci chiede di fare la faccina feroce; ma al minimo sindacale.Non capiamo ma ci adeguiamo. Ma, per favore, evitare uno zelo non richiesto. Dai titoli di prima pagina del trio Sallusti, Feltri, Belpietro“Il trionfo dei peggiori”, “Altro che Bella ciao”, “Attaccano i migliori”; “Quelli che attaccano la Lombardia sono dei vigliacchi”, “Zingaretti torna in Tv. Oddio che disgrazia”, “Caos nelle dogane e grida grilline”, “Giuseppi non vuole i bond italici ma le rapine di stato”, “Mezza Europa surclassa gli aiutini di Conte”, “Mascherine introvabili, il governo ne risponda”, “I somari. Scuole modello grillino. Promozione per tutti. Quanti asini in festa nelle nostre scuole”, “Gli inaffidabili. Propongono la patrimoniale. Tornano a galla le sardine e dicono fesserie”, “I dittatori. La nostra libertà in mano ai burocrati”, “Meno democrazia e più paura per tutti. Così Conte prova a diventare un leader”, “Nessuno ha avuto un aiuto. Governo parolaio. Ora si rischia l’ira degli italiani”. E, infine, due chiari riferimenti internazionali: “Sicurezza e trasparenza. La ricetta di Trump” e, a proposito dell’aiutiamoli a casa loro, “Di Maio dica no ai 500 milioni per la cooperazione”.Nient’altro. Ma solo per mancanza di spazio. Una speranza, per i drogati del calcio. Il Tagikistan.Il Tagikistan, forse perché acquattato tra gli ultimi lembi delle steppe d’Asia centrale e le ultime propaggini dell’Himalaya, non è stato raggiunto dal coronavirus e perciò ha regolarmente iniziato il suo campionato di calcio. Una sorsata d’acqua per me e per i miliardi di persone in crisi di astinenza come me. Nomi sconosciuti, squadre mai sentite nominare, sfondi esotici. Un calcio genuino e primitivo venuto, come papa Francesco, dai confini del mondo; forse ci sorprenderà come avvenne con le squadre africane ai mondiali d’Italia. E, a quanto pare, moltitudini di telespettatori risorti a nuova vita.Un sogno. Qualcuno me lo può confermare? Quasi due milioni di persone nelle prigioni americane. Un terzo in attesa di giudizio. Circa la metà per crimini non violenti. Una bomba ad orologeria con l’arrivo del coronavirus. Ma i molteplici tentativi per disinnescarla si sono finora scontrati contro una cultura non direi giustizialista ma semmai punitiva e vendicativa.E così i responsabili del settore in alcuni stati retti dai democratici hanno avuto una brillante ancorchè singol dare idea. “Se non possiamo svuotare le prigioni, almeno evitiamo di riempirle ulteriormente”. Di qui l’invito formale ad “arrestare di meno”: Si attendono sviluppi.