CRONACHE DAL FRONTE (PUNTATA N. 28)
L’Accademia della Crusca storcerà un po’ il naso, lo so, ma non c’è un’ altra parola per dirlo. E a qualcuno dovrò pur dirlo che ieri, 9 aprile, è stato il mio “compli-mese”, no?Era il 9 marzo quando mi sono dovuto chiudere in quarantena perché un mio amico, Simone – a proposito, oggi lo dimettono dall’ospedale, provato ma guarito – era risultato positivo al tampone. E ai miei 14 giorni di cattività ne sono seguiti altri 16 di isolamento sociale, con poche uscite per lavoro – qualche ora al giorno un paio di giorni a settimana – senza poter vedere nessun altro al di fuori del cameraman, della sua assistente e del montatore – ciao, ragazzi, e grazie – mentre il grosso degli intervistati li ho sentiti via Skype o dal balcone di casa. Ma non è per ricevere i vostri auguri che scrivo oggi. Il motivo è un altro ed è meno futile, direi finanche di un certo interesse giornalistico. Mi spiego. Se sono sopravvissuto alla cattività è perché – come tutti voi, immagino – mi sono procurato un’arma segreta. Un’arma solo mia, che mi ha dato la forza per andare avanti e mi ha sorretto nei momenti bui. Qual é? Facciamo così: io vi dico qual è la mia e voi mi dite qual è la vostra. Ci state? La prendo da lontano ma giuro che ci arrivo. Ho letto ieri che il mitico Paolo Rumiz ha trovato la sua ancora di salvezza nel terrazzo condominiale, che si è svelato ai suoi occhi come un possente veliero con cui uscire in mare e rivedere la luce. Altri miei amici sono stati salvati dalla lettura, che ancora una volta si è dimostrata un magico toccasana, con cui lenire la solitudine e ampliare i propri orizzonti, diventati da un giorno all’altro angusti. Ognuno di noi, credo, si è ingegnato per trovare una strategia di sopravvivenza fatta su misura, nel rispetto della sua indole e delle sue possibilità. Ed è così che siamo andati avanti, giorno dopo giorno, bollettino (della Protezione Civile) dopo bollettino. La mia arma segreta è stata un’altra, meno nobile di sicuro, E infatti mi vergogno un po’ a dirlo e adesso esito a scriverlo. E quale sarà mai, vi direte? Ebbene, la mia arma segreta sono stati i formaggini. Sì, i formaggini, il cibo perfetto con cui affrontare questa emergenza (e tutte quelle con cui la vita ci sfida ) e non crollare nei momenti più difficili. Chi mi conosce sa che non scherzo. Già sul mio blog, anni fa, mi ero sperticato in un’ODE AL FORMAGGINO scritta di getto e col cuore da una casupola diroccata, ad Aleppo, sotto i barili-bomba del regime di Damasco, che non risparmiavano nemmeno i forni e costringevano i siriani alla fame. Era una situazione al limite, certo, ma quello che scrivevo allora vale anche oggi. E a mia giustificazione c’è il fatto che sono un single e non ho sempre voglia di sporcare piatti e padelle. Non a caso la mia Ode iniziava così: “Io sono per i formaggini. Da sempre. Perché li puoi mangiare dappertutto, in macchina come sotto le bombe. E poi li spalmi comodamente su qualsiasi pezzo di pane, senza bisogno di posate. E non ti sporchi, mentre con lo scatolame sì, che si tratti di tonno, sardine o altro. Certo, ci sono anche i biscotti: altrettanto pratici e nutrienti. Ma vuoi mettere i formaggini?”Ecco. Quello che però all’epoca non mi era così chiaro come adesso – colpa delle bombe, forse – erano le implicazioni proustiane di questa mia cremosa passione. Perché i formaggini hanno un sapore antico e rimandano all’infanzia. Io li ho scoperti negli anni ’60 e sono stati per me quello che per la generazione successiva è stata la Nutella. Li mangiavo all’asilo e me li comprava la mamma. Il mio preferito era il formaggino Mio, che allora come adesso si vende nella confezione da tre pezzi, gialla. All’estero, però, da grande, ho cominciato a innamorarmi de “La vache qui rit”, un formaggino francese dannatamente buono, con una simpatica mucca che ti sorride dalla scatola. Ormai lo cerco ovunque, pasto frugale ma appagante per le serate in cui non ho nemmeno la forza di uscire dalla mia stanza d’albergo. Se ho deciso di scrivere questo nuovo omaggio al formaggino è perché il mio amico e collega Daniele Raineri, qualche giorno fa, ha tessuto gli elogi, sul Foglio, di un nuovo pasto in polvere, very high-tech, di cui non faccio il nome per non farne la pubblicità e che comunque evito di chiamare “beverone” perché so che il mio amico non apprezzerebbe. Daniele dice di usarlo cum grano salis e solo quando gli fa comodo, per questioni di tempo o se le alternative sarebbero degradanti (tipo: i bar per turisti nel centro di Roma). E aggiunge con onestà che l’ostacolo più grande a diventarne un perfetto consumatore – come è successo per chi si arruolava nell’ISIS – è la barriera psicologica che c’è da superare all’inizio, solo all’inizio. Poi tutto passa – dice lui – e ci si può finalmente nutrire bene e a pochi soldi. Io stimo molto Daniele. Ma stavolta non posso concordare con lui, anche se ne capisco le ragioni. E lo avverto. La prossima volta che lo incrocio all’estero, nei posti sfigatissimi che ci ritroviamo a bazzicare entrambi, beh, che non si azzardi a chiedermi un formaggino. Se ce l’ho in tasca, piuttosto me lo metto sotto i piedi e lo schiaccio. Riducendolo in poltiglia come il suo beverone. P.S. In foto il re dei formaggini
