LA PROSAICA PASQUA DEL 1970
La Pasqua del 1970 cadde di 29 marzo. E quando dico cadde intendo che cadde proprio come corpo morto cade, per citare il poeta, ma di lirico vi fu assai poco in quella pasqua, perché a cadere fui proprio io, di peso, letteralmente a terra, tramortito da una giornata in cui per la prima volta il profano si fece beffe del sacro nella mia vita. Ero euforico quella domenica perché il giorno prima allo stadio, Cic-cio-Cor-do-va-Cap-pel-li-ni-Del-Sol-ogni-ti-ro-è-un-gol, si giocava di sabato, avevo assistito grazie al mai troppo celebrato abbonamento junior club, la curva costava comunque meno di mille lire, alla vittoria della Magica Roma sul Lanerossi Vicenza con un gol nel fine partita di Scaratti. Per fortuna c’era una pioggerellina fastidiosa a pasqua, così il ventilato picnic, occasione di nervosismi familiari portati al limite del sopportabile, andò definitivamente all’aria e mio nonno Michele, il padre padrone, anche perché era sempre lui che sborsava i soldi, decise che saremmo andati ai Castelli romani, al ristorante. Lo stipendio medio di un operaio nel 1970 era di circa 120 mila lire, un giornale costava 70 lire, un litro di benzina mi sembra arrivasse a 150 lire. Tra le canzoni più suonate in quella primavera la radio passava spesso La Lontananza di Modugno, La Prima cosa bella di Nicola di Bari, Lady Barbara di Renato dei Profeti, roba così insomma, semplice, che allietava un italietta felice e ancora con qualche soldo da spendere. I nostri viaggi fuori porta però non erano allietati da queste note ma dalle liti furiose con insulti ad alta voce tra mio padre e mio nonno per via della macchina. Viaggiavamo in sei fissi sull’auto. i due vecchi davanti, dietro mia madre, mia zia e mia nonna e io steso in orizzontale sopra le tre corpulente matrone. Si usava all’epoca che quando incrociavi la pattuglia della polizia stradale, tra automobilisti, ci si scambiava in segno di solidarietà e unità nazionale un colpo di abbaglianti per avvisare gli altri che venivano dalla direzione opposta. In quel caso io dovevo scomparire ad altezza tappetino e rimanerci finché non superavamo la pattuglia. C’era un rigido protocollo per questi viaggi. Mio nonno appena chiusa portiera e finestrini si accendeva la sigaretta e partivamo dopo due boccate, giusto il tempo per creare una fitta nebbia nell’abitacolo. Solo alla seconda sigaretta, ormai alle porte di Roma, finalmente veniva aperto, nemmeno del tutto, il deflettore dello sportello anteriore destro, perché siccome erano tutti anziani temevano gli spifferi. Dopo un’oretta circa in cui continuavano a scambiarsi epiteti di varia natura si arrivava in letizia alla meta. A quel punto, saranno state circa le undici del mattino, si usciva dalla macchina duramente provati e cominciava la parte più interessante della giornata. Che non era il pranzo. Mio nonno aveva l’abitudine d’imbottigliare il vino per trasformarlo in spumante. Un’operazione semplice ma dal risultato notevole, non lo toccava per nulla, l’abilità stava nello scegliere il vino giusto per farlo diventare frizzante, né troppo dolce né troppo secco, sia rosso che bianco. Quando morì mio nonno nel 1991 un centinaio di bottiglie di spumante gli sopravvissero e fu un gran bel ricordo brindare ancora alla sua salute fino a un paio di anni dopo. Io ero l’aiutante ufficiale in questa operazione. Il patriarca mi aveva insegnato a travasarlo dalle damigiane alle bottiglie, usando il tubo con il sistema del succhio, rispettando la consegna di lasciare nel collo della bottiglia, erano quelle con il fondo ricurvo, abbastanza spazio per l’aria che sarebbe diventata anidride carbonica. L’equivalente per la mia cattolicissima famiglia del Bar Mitzvah ebraico fu il giorno in cui, intorno ai dodici anni, fui considerato abbastanza maturo da poter procedere autonomamente con la tappatrice per completare con il sughero l’operazione d’imbottigliamento. Prima di tutto questo però c’era la parte fondamentale, la ricerca del vino giusto a seconda delle annate. Tutto dipendeva dal clima dell’anno precedente, se aveva piovuto o era stata una vendemmia con uva arida. Mio padre, completamente avulso da qualsiasi vicenda pratica della vita, pur gustando come tutti lo spumante si guardava bene dall’affiancare mio nonno nella scelta del vino, che era quindi delegata completamente a mio nonno. Quella mattina arrivammo quindi a Monte Porzio Catone intorno alle undici, un po’ prima rispetto al previsto. Per sfruttare il tempo mio nonno decise allora di fare un giro per le cantine alla ricerca del vino perfetto da imbottigliare. Monte Porzio Catone aveva una gloria locale, anche se in quella pasqua ancora doveva venire, ma divenne poi un rito familiare visitarlo ogni volta che ci recavamo lì. Si passava sempre alla tabaccheria del signor Ernesto Latini, che aveva l’esercizio nella piazza più grande, subito dopo la porta d’ingresso principale del paese. Latini era stato il primo campione di Rischiatutto a vincere qualcosa come venticinque milioni di lire in un quiz televisivo, portando come materia per le domande finali I Tre Moschettieri di Dumas. Ancora oggi il museo della cittadina dei Castelli ospita dei ricordi e una targa a lui dedicati. Come detto era un’italietta umana e semplice, davanti alla tabaccheria di Latini c’era più gente che in fila per la madonna di Medjugorje. Tutti gli domandavano cose su com’era dal vivo Mike Bongiorno, sul perché aveva sbagliata quella data risposta, sulle dive della televisione che aveva incontrato negli studi di Roma, sulle minigonne di Sabina Ciuffini e così via. E lui, paziente, sorridente, non si tirava indietro. Lo ricordo sempre gentile e rassegnato al suo destino di celebrità locale. L’affermazione di Latini credo che fosse del 71, quindi quella mattina c’era proprio tanto tempo prima di pranzo e così ci dividemmo in due squadre. Io e mio nonno per cantine, mio padre, mia madre, mia zia e mia nonna catapiombate al ristorante dove ci avrebbero aspettato. Mio nonno mi voleva un gran bene e mi apprezzava fin da molto piccolo. Ovviamente lo faceva a modo suo e soprattutto nel modo che si usava a quei tempi verso i ragazzini, trattandoli non molto diversamente dai grandi. Forse mi sopravvalutò un po’ troppo quel giorno. Cominciammo quindi il giro per le cantine. Nonno Michele conosceva bene i proprietari di quattro o cinque cantine e loro conoscevano lui, era un ottimo cliente. Si andava lì, baci e abbracci, quanto è cresciuto il pupo, poi cominciava la trattativa. Il secco per fare lo spumante amabile e l’amabile per lo spumante dolce. Per ogni cantina comprava tra i venti e i trenta litri, metà bianco e metà rosso. Ma come sceglierlo? E qui sta la chiave di quella fantastica giornata. Ci sedevamo intorno alle botti, la moglie del proprietario portavo prosciutto, salame, formaggio e si cominciava l’assaggio. Siccome alla fine ero io che lo mettevo nelle bottiglie, mio nonno decise che era arrivata l’ora che cominciassi anche ad assaggiarlo per entrare nell’affare. Avevo 8 anni e mezzo. Così, tutto fiero col mio bicchieretto davanti, salumi e formaggi burini a volontà, per ogni cantina assaggiammo, come era d’obbligo, almeno cinque o sei qualità di vino, bianco, rosso, secco dolce, qualche riserva speciale, un paio di botti invecchiate per diventare liquore. Ci saremo fatti almeno quattro cantine, forse cinque, stando una media di mezz’ora in ogni grottino, mangiando non so quanto prosciutto accompagnato dalla pagnotta casareccia scrocchiarella. Credo, senza esagerare, che anche se mi mettevano meno vino che ai grandi, avrò bevuto tra un litro e un litro e mezzo di almeno una quindicina di vini diversi. Mio nonno viaggiava intorno ai tre litri senza fare una piega. Ridevamo come pazzi, mi raccontava le storie di olivari, fruttaroli, abbacchiari e cavallari del mercato di Ponte Milvio dove aveva il banco di carne, storie di truffe alimentari e di scherzi atroci e ignoranti tra di loro, e ridevamo, ridevamo ridevamo, fino al punto che mentre gli osti caricavano in macchina l’ultima damigiana dall’ultima cantina era talmente euforico che m’insegnò come si facevano le fiammate scoreggiando e avvicinando l’accendino al sedere. I primi segnali della tragedia si profilarono già arrivando al ristorante. Si erano fatte le 2 del pomeriggio e il resto della famiglia era incazzatissimo. A casa mia sgarrare anche soltanto di dieci minuti sull’ora di pranzo, fissata in base a non so quale convenzione alle 13 precise, poteva scatenare reazioni violente. Se la presero con mio nonno in tutti i modi, persino mia nonna, che in vita mia avrò sentito parlare col marito soltanto quattro o cinque volte, gli diede dello stronzo. Passò un’altra mezz’ora prima che la lite venisse sedata. Quando arrivarono i primi mio nonno ebbe l’ulteriore infelice idea di fare un bel brindisi alla bella giornata, alla gita, alla pasqua. Anche in quell’occasione mi trovai con il mio bicchieretto di vino e non esitai due volte a bere. Fu come la mentina per il ciccione dei Monty Python. Il tempo di mandare giù e quello di tornare su con una violenta torsione del corpo, vomitando l’impossibile su tutto il tavolo, colpendo irrimediabilmente tutti i piatti appena serviti. Ebbi un secondo conato ancora più forte con cui, forse perché mi ero un pochino girato, vomitai anche sul tavolo a fianco al nostro. Ricordo i signori del tavolo accanto scattare in piedi per evitare gli schizzi e io che cado esausto per lo sforzo a terra, in questa pozza che ormai avevo creato nel raggio di tre metri. Mia madre cominciò a urlare impazzita, Oddio Oddio sta morendo! Mio padre tentò di prendere il lembo della tovaglia per pulirmi, ma preso dalla paura di una situazione che non capiva tirò giù tutti i piatti, che si ruppero con gran fragore. Mia zia, che era infermiera, mi tirò su per paura che mi strozzassi e quindi rivomitai con abbondanza addosso a tutti. Ebbi conati per diversi minuti, mentre tutto intorno non ho ben chiaro cosa stesse accadendo, ricordo soltanto che l’intero ristorante era in movimento e sentivo un gran rumore probabilmente amplificato dall’ubriacatura. Mia madre cominciò a urlare che ero diventato tutto bianco e avevo gli occhi da matto, ma questo me lo disse poi diversi anni più tardi anche durante un’altra lite e quindi non so se lo possiamo prendere come dato scientifico. Mi misero alla fine su una sedia, su cui ricordo che per gli spasmi avevo dei movimenti involontari alla pancia, e nel frattempo mio nonno capì che bisognava andarsene prima possibile. Organizzò la via di fuga nell’unico modo che conosceva, tirando fuori dalla tasca una mazzetta impressionante di soldi, di cui era sempre provvisto, con cui pagò il conto nostro, quello dei signori accanto, le “spese per la tintoria” come disse mellifluamente agli esterrefatti vicini di tavolo, i danni per il ristorante e mettendo in tasca a tutti i camerieri che gli capitavano a tiro qualche mille lire. Non so dire come ci ritrovammo all’uscita, non credo di essere stato mai così male in vita mia, non capivo più molto. Ero appoggiato a mia madre quando il cameriere che nonostante tutto ebbe il coraggio di dire “sono cose che capitano” consigliò ai miei di portarmi in ospedale. E a mio padre che obiettava che anche se forte era stato “soltanto” un attacco di vomito il cameriere fece notare che la puzza di vino di quello che avevo sparso per tutto il locale era così forte che forse avevo bisogno di una lavanda gastrica. Poi, felice di essersi liberato di noi, rientrò all’interno. Ci furono diversi secondi di silenzio durante i quali mia madre, mio padre mia zia e mia nonna realizzarono finalmente che cosa era successo. Quello che accadde dopo lo ricordo confusamente. Si voltarono tutti verso mio nonno che iniziando a capire la tempesta che stava per abbatterlo provò a bofonchiare qualcosa tipo “ma sarà stato soltanto un bicchierino di vino .. due al massimo …”. Mio padre gli si avventò contro afferrandolo per il panciotto e la cosa più delicata che gli gridò fu “brutto pezza di merda”, mia madre urlava come un’ossessa insulti sconnessi al padre, le altre due matrone gli andavano sopra con la voce dandogli del delinquente. Alla fine, mentre tutti si tiravano per i vestiti ondeggiando di qua e di là, uscì di nuovo il cameriere urlando anche lui che se non ce ne andavamo avrebbe chiamato la polizia. Non ricordo il viaggio di ritorno. Mi svegliai la mattina dopo sul tardi. Mi tennero a casa tre o quattro giorni. Per un mese circa non andammo più a pranzo da mio nonno come invece facevamo tutte le domeniche. Non ricordo davvero una sola volta in vita mia in cui sono stato così male da non poter controllare i miei muscoli. Due mesi dopo, senza tornare sull’accaduto, mio nonno mi chiese soltanto se ero pronto. Naturalmente lo ero. E così scendemmo in cantina per travasare il vino comprato quel giorno nelle bottiglie che sarebbero diventate spumante. Nessuno fece mai più un accenno a quella giornata finché furono vivi tutti i protagonisti. Credo che oggi per una cosa del genere, visti i tempi di estremo moralismo, sarebbero stati arrestati tutti quanto con accuse davvero infamanti con un minore di mezzo. Naturalmente ancora oggi a ogni pasqua che viene penso a quella meravigliosa pasqua del 1970, quella del mio ingresso nel mondo dei grandi, e comincio a ridere forte brindando a mio nonno.
