CORONAVIRUS, LE MOLTE FACCE DI UNA RIAPERTURA A RISCHIO NELLE DIFFERENTI ITALIE
Il dado è tratto. Il 4 maggio si apre la fase 2. L’Italia, è deciso, riparte. Tutto da definire come e dove. Si conoscono più o meno le attività produttive coinvolte prioritariamente (i cantieri e le attività esposte alla concorrenza internazionale). Si sa che le Regioni vogliono linee guida entro le quali muoversi poi con una certa elasticità. Che il nodo dei trasporti pubblici è uno dei più complessi. Che ai bambini verranno concesse libertà maggiori. Restano ancora sulla carta un numero imprecisato di questioni. Anticipare il 4 maggio con qualche manovrina di alleggerimento? Come reperire i milioni di mascherine giornalmente necessari? Come garantire le distanze sui trasporti pubblici e nei luoghi di lavoro? Come socializzare in tempi ultra rapidi milioni di italiani all’utilizzo di una app su bluetooth che non sia solamente uno status symbol per pochi? C’è poco da scherzare. Sulla riuscita della fase 2 si giocano molte carte decisive. Da un lato il passaggio ad una fase 3 che consenta una vita che abbia la parvenza di una normalità. Sia pure mascherata da una striscia di sicurezza su bocca e naso. Dall’altro un fallimento che al momento nessuno può escludere, con un ritorno precipitoso al passato di ieri e alle immagini di un futuro da incubo. Procrastinato oltre la fine della vita di molti di noi. Affidarsi alla scienza, alla Madonna, al senso civico o al caso. Per il momento rovistare tra le statistiche qualcosa che ci spieghi dove potrebbero insorgere gli ostacoli principali, perché sappiamo che non li possiamo prevedere tutti. Ma è purtroppo assai prevedibile che molti ne insorgeranno. Nel frattempo pare che sia venuta l’ora delle classifiche. Chi è stato bravo e si merita la riapertura. Chi ha commesso errori e deve pagarne le conseguenze. Pagelle di buoni e di cattivi si sprecano. Prevale il desiderio di rifilare punteggi che stabiliscano su scala quantitativa chi sta davanti e chi dietro. Certo non mancano i soggetti che hanno commesso errori, anche gravi, per quello che si può capire. Ma la realtà è quella che è. Da essa bisogna partire, non da quella che spereremmo che fosse. La realtà dunque, o per meglio dire le molte realtà che convivono nelle Italie di oggi. Perché non tutte le situazioni sono identiche. E inoltre, questo è il punto fondamentale, ogni situazione presenta i suoi propri rischi, nessuna ne è esente. O siamo capaci di farci i conti, luogo per luogo, oppure ne rimarremo schiacciati. Per chi non lo avesse ancora capito bisogna ricordare una cosa che gli infettivologi hanno chiarito senza ombra di dubbio. Due possono essere le premesse, apparentemente contraddittorie, da cui potrebbe riprendere forza un’infezione non ancora debellata. E l’una o l’altra di tali premesse coprono quasi tutto il territorio italiano. Si tratta di fattori che possono assumere le sembianze di due soggetti. IL CONTAGIANTE E IL CONTAGIABILE. Il primo è maggiormente presente nelle zone che già hanno sofferto pesantemente la fase della pandemia non ancora conclusa. Il secondo è invece presente dove i numerosi contagiabili di oggi, quelli che finora contagiati non sono stati, testimoniano il successo della fase 1. Ma anche la possibilità che i rimasti estranei al virus, in quanto privi di immunità, possano rappresentare una sterminata prateria per i nuovi attacchi del covid. In parole povere, fintanto che il vaccino non verrà messo a disposizione (campa cavallo) avremo, soprattutto al nord, da preoccuparci per i numerosi casi di soggetti positivi che ci possono infettare. Al sud invece c’è da temere seriamente che l’aprirsi di un nuovo focolaio possa provocare le scintille di un nuovo contagio tra i sani. Al nord dobbiamo vegliare sul fuoco che cova sotto la cenere. Al sud sui rami ancora da ardere. Peraltro al nord è troppo presto per invocare la protezione dell’effetto gregge, ancora lontano nonostante quello che abbiamo subito. Al sud è troppo presto per cantare vittoria perchè una parte troppo ampia della popolazione potrebbe ancora risultare vittima di una seconda ondata. Andiamo a vedere come stanno in Italia le cose, in pratica, luogo per luogo, provincia per provincia. Abbiamo tre ordini di indicatori da prendere in considerazione, per valutare localmente i rischi. Quelli che ci danno il quadro del disastro già avvenuto (numero di morti e di contagiati, percentuale dei contagi e dei decessi rispetto al numero degli abitanti). Quelli che ci forniscono gli indizi sul dove qualcosa potrebbe prendere piede con sempre maggiore insistenza (tasso di crescita, numero di casi al giorno). Quelli che ci forniscono la situazione dei differenti territori e della loro vulnerabilità dal punto di vista geografico. Nella dimensione economica, come i collegamenti e i trasporti; nella dimensione fisica come le isole e le aree interne del centrosud. Nella dimensione sociale, come l’affollamento delle aree metropolitane o delle zone turistiche. Oggi la Lombardia (come ovvio) e il Piemonte (cosa che fino a pochi giorni fa sembrava meno ovvia) si contendono la palma della Regione più a rischio. Rischio più forte perché, per ragioni economiche, sono Regioni che maggiormente spingono per una riapertura vista come condizione necessaria alla sopravvivenza In Lombardia, tutti gli indicatori sopra segnalati e i rischi relativi sono presenti. Il passato più ingombrante della nazione e forse d’Europa concentrato tra Lodi, Cremona, Bergamo e Brescia. Meno risolto che altrove in quest’ultimo caso. Un presente di bombe lì lì per scoppiare simboleggiato da una realtà come quella di Milano: con la presenza di 300 nuovi casi al giorno. Con Case protette e residenze per anziani nelle quali si contano non si sa quanti deceduti. Con un numero di morti complessivo da guerra mondiale prossima ventura. In prospettiva la spada di Damocle della ripresa della circolazione di un impressionante numero di pendolari al giorno per ragioni di lavoro. Un concentrato dei rischi di diffusione del virus dovuti al passato, agli sviluppi futuri e al contesto geografico di area metropolitana. Solamente alleviato da un tasso di contagi giornaliero infine relativamente contenuto. Ma è chiaro che una macchina che rischia di andare a sbattere contro il muro avrebbe bisogno di una frenata più brusca. Da non sottovalutare però anche alcune realtà provinciali, finora meno colpite, che hanno cominciato a registrare tassi di crescita dei contagi superiori al 3% giornaliero, come Como e Varese. Per il Piemonte i fattori di rischio in parte cambiano ma il prodotto si mantiene molto allarmante. Il problema di fondo è che la Regione, pure essendo “solo” la terza in Italia per numero di contagiati, ha visto, unica fra tutte, il recente permanere di tassi di crescita dei contagi superiore al 3%. Soprattutto a Torino, dove tale percentuale corrisponde a un numero di contagi giornalieri sulle 300 unità. Ma anche ad Alessandria, Cuneo, Novara e non solo. Vale a dire città già colpite fortemente agli inizi del contagio e che, come Alessandria, paiono vittime di una seconda ondata. Si prefigura dunque un’area metropolitana allargata e ampiamente industrializzata che si espande dalla Lombardia al Piemonte, come una macchia d’olio e che pare dotata di un potenziale di dilatazione più che considerevole, Prima di scendere a latitudini più meridionali occupiamoci per un momento delle altitudini. Si era molto temuto che in una notte di assalto ai treni i milanesi di origine meridionale avrebbero esportato il virus verso le proprie province di origine. Questo, se è avvenuto, non ha però assunto i lineamenti temuti. Forse qualcosa nelle Puglie, stando ai dati. Più rilevante invece quanto avvenuto nelle aree montane, destinazione di lombardi e piemontesi proprietari di seconde case. Quanto a tassi di concentrazione dei contagi ufficiali per numero di abitanti Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta veleggiano intorno al 6 per mille. Una cifra che gli esperti suggeriscono almeno di decuplicare, considerando il numero degli sfuggenti asintomatici. Una sciata nel week end pare essere valsa troppo spesso la malattia. Certo quelle piccole Regioni oggi, pure se la crescita dei contagi si è ridotta, non possono essere considerate virus free. Meglio di loro, nell’arco alpino, il Friuli Venezia Giulia. Ma con una precauzione legata al presente. L’area metropolitana, se così si può dire, di Trieste ha infatto registrato recentemente, la crescita di una cinquantina di contagi al giorno che non promette molto bene. Le altre regioni del nord non registrano una complessità di situazioni paragonabili a Lombardia e Piemonte ma, ciascuna per un verso, mandano qualche segnale di vulnerabilità che l’apertura del 4 maggio potrebbe accentuare. Il Veneto, che coi tamponamenti a tappeto effettuati a Vo’ Euganeo agli inizi dell’epidemia aveva sicuramente reagito meglio della Lombardia, segnala che non riesce a contenere una riapertura stisciante già in atto delle fabbriche. Tanto vale renderla ufficiale. Effettivamente negli ultimi giorni il tasso dei contagi nel Veneto, che si era di molto ridotto ha iniziato una ripresina, superando il 2%. Casualità dovuta al numero dei tamponi? Forse. Certo che Treviso ha ripreso a crescere quando ormai pareva essersi assopita, mentre Padova e Verona esprimono trend assimilabili a quelli di aree metropolitane del Nord ovest, pure partendo da numeri iniziali più contenuti. Che sia quello il destino dell’Italia che riapre le fabbriche? Per la Liguria il discorso va invece probabilmente ricondotto a quello delle località turistiche alpine. Si segnalano tassi elevati, anche se ad intermittenza, nel ponente della Riviera, il caso di Imperia. Ma anche la provincia di Genova ha fatto rilevare caratteristiche a volte analoghe con una media di 50 casi negli ultimi giorni. Forse i fattori sono molteplici. Ricadute di un iniziale turismo del week end più effetto area metropolitana. Molto articolato il discorso sull’Emilia Romagna. Che ha di positivo la complessiva tenuta del sistema ospedaliero. Per alcuni versi simile la situazione delle province tra loro più lontane. A ovest Piacenza e in minor misura Parma hanno subìto l’onda del lodigiano e di Cremona, allo scoppiare dell’epidemia. Di conseguenza tanti contagianti ma, entro certi limiti, il contenimento, oggi, del numero dei contagiabili. In una provincia dove il rapporto contagiati/abitanti è però il terzo d’Italia. Analogie con Rimini, vittima un mese fa di un violento focolaio locale situato tra il basso riminese e il pesarese. Molti i contagi sul totale della popolazione ma, con l’andare del tempo, la diffusione ulteriore dell’infezione pare essersi contenuta, situandosi intorno al +1% al giorno. Altrettanto non si può dire delle altre province della Regione. Abbastanza contenuto nel complesso dell’ultimo mese, ma in maniera discontinua, il ritmo dei contagi a Forlì-Cesena e a Ravenna, così come a Ferrara. Ancora consistente a Modena dove solo negli ultimi giorni si è avuta una frenata. E ancora di più a Reggio Emilia, dove in parte ciò è addebitato a un ritardo nel referaggio dei tamponi. Ma anche aBologna con un numero di casi giornalieri in aumento e superiore ai 50 e con l’aggravante di rappresentare un’area metropolitana a rischio. C’è, nella diversità delle situazioni, un elemento che accomuna molte delle province indicate (Reggio Emilia, Bologna, Forlì-Cesena e Ravenna). Le impennate sono molto spesso dovute alla esplosione di piccole zone rosse. Residenze per anziani, praticamente ovunque. Più grave, nel bolognese, la Zona rossa, con la Z maiuscola, di Medicina, in una bocciofila e quasi a ridosso del capoluogo. L’interrogativo che ne viene fuori è se sia pensabile che i danni contenuti, subiti nelle ultime settimane da queste realtà in regime di lockdown, possano essere contenuti altrettanto bene se emergessero in una più liberalizzata fase 2. Passiamo al centro sud e dapprima guardiamo al Centro Italia. Un’area disomogenea che racchiude situazioni tra le più diverse. Le Marche, che dopo il salasso subito dalla provincia di Pesaro nei primi tempi pare avviata ad un contenimento del virus di efficacia pari a quello realizzato nel lodigiano o nel piacentino. L’Umbria, che negli ultimi giorni ha visto felicemente avvicinarsi la linea dei contagi zero, anche non avendo mai avuto un’ondata infettiva consistente, ma quindi ha molti contagiabili. La Toscana con una Firenze che, come area metropolitana, pare seguire a distanza di tempo la crescita di Bologna. Tassi intorno al 3% e 50 casi giornalieri. L’Abruzzo, che può destare qualche allarme in quel di una Pescara che non si discosta da una crescita graduale assimilabile alle aree metropolitane meno colpite del nord. E con un numero di casi complessivo (intorno al migliaio) appena più basso considerando il numero degli abitanti. Ma l’incognita del centro Italia rimane soprattutto Roma. Finora decisamente meno peggio del previsto. Ritmi e numeri assoluti assimilabili a quelle delle ben più piccole Bologna e Genova. Ma cosa può succedere in una metropoli come la capitale, con tante persone ancora contagiabili, se l’inno al liberi tutti assumesse il senso di comportamenti poco responsabili? Oppure se si moltiplicassero i casi di zone rosse nell’hinterland, come quella di Campagnano, nelle ultime ore. Resta il sud. Finora la parte dell’Italia, con le isole, che meglio è uscita dalla pandemia. Comportamenti dei cittadini molto più civici di quanto sostenuto da paludati luoghi comuni, accompagnati da un sistema ospedaliero con qualche eccellenza, fintanto che non viene messo sotto eccessiva pressione. E poi il vantaggio di essere arrivato dopo. Quando si poteva imparare dagli errori altrui. Ed evitare che, come altrove, si chiudessero le stalle quando molti buoi erano già fuggiti. Però sarebbe erroneo leggere il sud con una sola chiave di lettura, soprattutto in vista di un mutamento degli scenari. Anche perché è dallo stesso sud che vengono voci contrastanti. Si va dallo “Siamo stati bravi, mo basta” che circola soprattutto in Puglia, allo “Se il nord apre, noi per tutelarci chiudiamo”, caro al presidente della Campania. La verità è che al sud sussistono scenari diversificati. Si va dalle aree interne della Basilicata, del Molise e di una parte di Calabria e Campania che hanno paradossalmente beneficiato della scarsità dei collegamenti e che sono potenzialmente in grado di controllare e delimitare l’insorgenza di nuove piccole zone rosse. Nonché di contenere nuovi flussi dall’ esterno senza sforzi eccessivi (ma sono stati finora effettuati tamponi in numero sufficiente a fornire sicurezza per il futuro?). Si procede con le isole, Sardegna e Sicilia, per definizione fisicamente “isolate” dal resto del paese, cui la fine dell’isolamento potrebbe recare la fine dei suoi “benefici” effetti per la serie “l’altra faccia della medaglia”. Per certo prima del lockdown qualche fenomeno di rilievo si era avuto, nel sassarese e nel catanese e piccole zone rosse legate a strutture protette non erano mancate, come in provincia di Enna. Per finire, non dimentichiamolo, le aree metropolitane esistono anche al sud. Solito discorso. Finora pochi contagi e pochi contagianti. Ma rimangono molti contagiabili. Come tutelarsi in una fase di allentamento dei vincoli? Anche perché nemmeno il sud può ritenersi invulnerabile. E se a Napoli tutto è finora andato meglio delle più rosee previsioni, qualche sussulto si è avuto nel barese, come nel foggiano, come nelle aree interne dell’avellinese e del salernitano o della Calabria, dove la provincia di Cosenza non è uscita incolume. Ritorniamo al discorso iniziale. Fare i conti coi numerosi contagianti al nord e coi numerosi contagiabili più a sud. Essere elastici a pronti a mutare strategia al primo avviso di nuova catastrofe. Scovare nelle case protette e in molti luoghi associativi o nelle stesse famiglie comportamenti che possono innescare reazioni irreversibili. Esercitare controllo, senza suscitare panico in un popolazione sull’orlo di un esaurimento nervoso, accentuato proprio dove la vulnerabilità è più elevata (gli anziani). Buona fortuna Italia, il dado è tratto. Ce l’hai un programma? Gli scienziati fanno qiuello che possono. Ma non possono essere fonte di certezze che non esistono. Là dove dai tempi di Galilei fino a quelli di Einstein, si procede per prova ed errore. Agli scienziati il compito di informare, ai poltici quello di scegliere. Non affidandosi solamente ala virtù della speranza. Anche nella roulette russa si può sperare che vada bene. Ma in canna c’è pur sempre un colpo su sei.
