PARASITE. DALLA COREA, SENZA SPOILER, IL CAPOLAVORO DI BONG JOON HO

Bong Joon Ho (Daegu, Corea, 1969) è stato esplicito: cari spettatori e critici, evitate di raccontare la trama del mio film. Non è del tipo che, se entri in sala e dici ‘Bruce Willis è un fantasma!’, lo mandi in fumo. Però, è meglio vederlo con l’occhio innocente al colpo di scena, alla situazione che si ribalta d’improvviso, alla gioia e allo spavento. Vero.Parasiteè letteralmente una scatola che ha il doppio fondo (segnatevelo e dimenticatevelo), un onestissimo e ben congegnato gioco di prestigio, e poi per ognuno sia quel che sia. Se dobbiamo metterci l’etichetta, spiega ancora il regista, per alcuni sarà unfamilymovietragicomico, per altri unablack comedy, o unthriller: Bong Joon Ho, Palma d’oro a Cannes 2019, con percentuale da record suRotten Tomatoes, il titolo di campione d’incassi in Corea e già il profumo di unremakeUsa, lascia a tutti la possibilità di scegliere l’opzione preferita salvo poi farci cambiare idea ogni dieci minuti. Chi guarda può persino sonnecchiare per la partenza un po’ lenta, anche se visivamente potente, già sospesa tra iperrealismo e favola (metafora). Il seminterrato con vista sui piedi della gente che piscia sui bidoni della spazzatura sintetizza già lostatusdella famiglia sottoproletaria, che si affanna per trovare un punto dove prenda ilwi-fie studia un piano per fuggire dalla miseria. Un piano, il piano, e adesso qual è il piano? Ecco il motto chiave, il tormentone. È un piano quello che il capofamiglia Song Kang Ho (dal 2000 volto ed emblema del cinema coreano) elabora per tornare in superficie, a livello strada, anzi più su, e potrebbe pure riuscire, visto che ha moglie e due figli intelligenti, scafati e spregiudicati il giusto. Ma c’è un ma: Song Kang Ho porta addosso l’odore di stracci bagnati, di gente sudata in metro, la puzza incancellabile della povertà. La famiglia del manager informatico, scelta dai nostriLumpen-eroi per lastangata, già dall’abitazione di design rivela il suo irraggiungibilestatus; e quando non saranno le classi diverse e l’economia scientifica di Karl Marx a decretare l’incompatibilità di miserabili e capitalisti, ci penserà la sfiga, la natura, il temporale… Non ci sono piani che funzionano, l’unico piano sensato è non averne, mormora verso la fine, tra sé e sé, l’irriducibile, pure nella sconfitta, Song Kang Ho. Fatto. Abbiamo chiacchierato molto senza svelar nulla. Nospoiler. Di Bong Joon Ho, abbiamo amato in passatoSnowpiercer(2013), filmone distopico su un’umanità derelitta costretta al viaggio perpetuo a bordo di un grande treno, dov’è rigorosamente divisa per classi. Non prima, seconda e terza. Classi marxiane (e dai!). Non c’era sembrato un capolavoro ma un’opera lavorata, aguzza, capace di ingoiare l’attenzione dello spettatore come la galleria il vagone. E nei film precedenti, fossero sfaccettati ritratti diserial killer(Memories of murder, 2003), di mamme coraggio incapaci di arrendersi alle colpe dei figli (Madre, appunto, 2009) o addiritturahorroratmosferici, comeThe Host(2006), il regista ha sempre offerto unmixinquieto di genere e autorialità: sebbene quest’ultima categoria, nell’Oriente degli anni Dieci, attenga più alla versatilità e alla complessità degli effetti, all’ingegnosità e alla sveltezza di visione, che al pensoso rigorismo di certi maestri europei. Che sia da riscrivere nei dizionari di cinema il lemmaAutorialitàè fuor di dubbio, e il cinema coreano con Bong Joon Ho, trionfante a Cannes e al botteghino, è in prima fila a chiedere di essere riconsiderato.