PIETRO ACCIARITO: VITTIMA DI UN RE COLPEVOLE
22 aprile 1897.Mentre assiste a una corsa di cavalli all’ippodromo sulla via Appia, il re Umberto I schiva una coltellata che un giovane vuole assestargli e continua serenamente a seguire l’evento, che dall’episodio non viene per nulla turbato.Il giovane si chiama Pietro Umberto Acciarito e deve il secondo nome all’ammirazione che suo padre, portiere, nutre per il re. Pietro non ha potuto studiare a causa delle difficili condizioni familiari, ma essendo bravo e intraprendente è riuscito, dopo aver imparato il mestiere di fabbro, ad aprire un’officina sua. Legge molto, ha il cuore dalla parte dei poveri, lui stesso sa cosa significhi la disuguaglianza sociale.Il 20 aprile va a trovare il padre e gli dice che non si rivedranno più e ne avrebbe scoperto presto il perché. Il padre riesce a fargli dire di più: sta andando all’ippodromo. Dato che la partecipazione alle corse ippiche del re, prevista per il giorno 22, è ben nota, la conclusione è facile. Il signor Camillo avverte la polizia che forse ci sarà un attentato, pur senza fare il nome del figlio.Dopo il tentativo fallito, Pietro Acciarito viene arrestato, torturato, spinto con l’inganno e le sevizie a denunciare un complotto che non esiste. L’attentato è il pretesto per fermare e arrestare dissidenti, perquisire case, compiere azioni infami. Tra gli altri, ci va di mezzo l’innocente Romeo Frezzi, che ha l’unico torto di tenere in casa una foto del suo amico Pietro: trascinato via, dopo tre giorni di sevizie morirà.Non bisogna dimenticare che sono i giorni in cui in Parlamento si discute l’inasprimento della legge sul domicilio coatto, che si voleva assegnare agli incensurati, in via preventiva. I tumulti erano all’ordine del giorno perché, in una situazione già di miseria e di mancanza di lavoro, le imprese africane avevano portato all’aumento dei prezzi e a una più aspra pressione fiscale. Si finanziava la finta pretesa di “civilizzare” (con le armi e il terrore) i popoli africani con la fame e la disperazione degli italiani. Appena fermato, Pietro Acciarito ha spiegato infatti così il suo gesto:«Io l’attentato che ho fatto, prima di tutto non c’è complotto e non sono stato spinto da nessuno, ma lo feci perché ero in miseria. Si buttano li milioni in Africa e il popolo ha fame perché mancano li lavori. È questa la questione: è la micragna».Alla lettura della sentenza (ergastolo), Pietro inneggia all’anarchia e alla rivoluzione sociale.Non regge ad altre torture, all’isolamento, agli inganni degli inquisitori che continuano a cercare di fargli confessare inesistenti complotti ricorrendo agli stratagemmi più biechi. Impazzisce.Muore quarantasei anni dopo, in manicomio. Senza aver mai più rivisto la luce.
