11 SETTEMBRE, IO C’ERO

In quei giorni mi trasferii a Boston, da dove erano partiti due degli aerei dell’attacco. Allo yachting club riuscii a sorprendere il fratello di Bin Laden, per poco non riuscii a rintracciare la madre, ma individuai l’albergo dove viveva, in piena Little Italy: tutta la strada era della famiglia. Sul “Boston Globe” uscirono due pagine con i movimenti minuto per minuto di tutti i diciannove dirottatori, fino alla “festa” finale con Mohammed Atta che a trent’anni brinda all’ultima notte della sua vita. Un paio di giorni dopo è diffusa la sua foto che saluta all’aeroporto Logan prima di andare al suicidio. Un altro paio di giorni e nelle macerie polverizzate di Ground Zero rintracciano il suo diario: “Memorandum di un kamikaze”. Manco nei film. Tornato in Italia chiedo a un amico del Sismi: ma com’è possibile? Risponde: “L’ipotesi più benevola è che quelli della Cia non hanno capito cosa andava a fare”. Leggo la sua storia: entrato da clandestino a Miami, Atta è uscito e rientrato almeno due volte (dalla Germania) negli Stati Uniti dove ha preso tranquillamente il brevetto di volo e preso a pugni uno sceriffo in Florida. Fra le tante cose che non tornano c’è poi l’orario dell’attacco. La mattina presto quando gli uffici delle Torri sono chiusi. Tipico dei “servizi”, com’è successo anche da noi nel ’93. Si potrebbe continuare, ma certo è che gli Stati Uniti di Bush, pressati dal movimento no-global (non casualmente massacrato) con l’11 settembre hanno ripreso il pallino del mondo. E così sia.