AGENZIA DELLE ENTRATE. UN RACCONTO SUL MONDO CONTADINO

AGENZIA DELLE ENTRATE. UN RACCONTO SUL MONDO CONTADINO

La busta verde, gonfia, con gli angoli leggermente schiacciati, riposava sul tavolo da almeno mezz’ora, il tempo di smaltire il panico da raccomandate che mi ha sempre preso nel ricevere inaspettate notizie da amministrazioni pubbliche, viste come Enti lontani, capaci unicamente di regalare tragedie, o, nel migliore dei casi, infinite, inoppugnabili batoste… Notifica di pagamento… Agenzia delle Entrate. Sono rimasto di sasso, ieri, proprio come si rimane quando si riceve un avviso di quel genere, ma poi, scavando a fatica nel linguaggio scarno e lapidario tipico delle cartelle esattoriali, alla fine ho capito quello che mi si contestava. Pareva che l’anno prima avessi venduto un terreno appartenuto a mio padre, due ettari circa di seminato a due passi dal paese, sottostimandolo considerevolmente. Non mi sono arrabbiato, anzi. Forse me l’aspettavo, addirittura. Mi sono detto che me lo meritavo e sono partito. Io quel terreno, l’ultimo, il più bello tra quelli appartenuti, o forse sarebbe meglio dire ereditati da mio padre, per la verità, me lo ricordavo soprattutto dai suoi racconti, visto che non c’ero mai stato. E forse per quello, dopo la sua morte, avevo aspettato dieci anni prima di venderlo, e siccome ancora un po’ mi dispiaceva di averlo venduto, senza averlo mai visto, ho svoltato in direzione di Montes e mi sono messo a pensare. Lo ricordo ancora quel giorno. La città era bella anche sotto la tardiva cappa di caldo. La Piazza brillava, anche se mancava la sua gente indaffarata, i postali provenienti dai paesi, le bancarelle del mercato. Nei Giardini Pubblici, dove un tempo avvenivano gli incontri amorosi tra i seminaristi e le smaliziate ragazze delle Magistrali, c’erano passeggini e mamme apprensive… Io ero entrato dal Notaio e ne ero uscito un’ora dopo, senza aver battuto ciglio. Davanti a me, oltre al Notaio, una sorta di procuratore, che agiva per conto del compratore, tale Giuseppe Piu, nome sconosciuto alla mia memoria, ma tant’è… aveva portato una busta in contanti e, nonostante i dubbi del notaio sulla modesta entità della cifra, avevamo chiuso l’atto in pochi minuti. Una stretta di mano, il caffè di rito e via nuovamente giù per le strade assolate della città. Avevo accettato la cifra pattuita e non avevo minimamente ribattuto. Pensavo ad altro, a mio padre forse, e alla sua fuga definitiva da Montes verso la città, e così fingevo un compiaciuto orgoglio, mentre affrontavo le vie alla ricerca dei luoghi dei suoi più lontani racconti. Guardavo il vecchio Teatro e ripensavo ai varietà che vi si svolgevano appena dopo la guerra, dopo che mio padre era tornato indenne da Agrigento e dalle bombe americane: in quel loggione, stipati sino al limite, si poteva riconoscere lo stesso sapore di sesso dei bordelli popolari, l’atmosfera smorzata dagli acri profumi delle colonie degli spettatori, quasi imprigionata da una nube di fumo che cancellava ogni essenza predominante sull’altra, i fischi del pubblico subito travolti dalla musica precipitosa che introduceva le ballerine, le gambe nude che facevano irruzione nella saletta, il turbinio delle vesti che avvolgeva i sensi dei ragazzi più timidi. Mi avvicinai e lessi… Il flauto magico. Scossi la testa, deluso dagli scherzi del tempo e corsi giù, verso il Castello che non esisteva più, la Via del Duomo e il Corso spoglio di negozi, mentre a fatica scorgevo qualche traccia del vecchio Centro nei vicoli che portavano a Santa Caterina e al vecchio Comune: tristi prostitute abbassavano lo sguardo tradendo una vocazione improvvisata, mentre i turisti giravano a vuoto alla ricerca dei pochi monumenti indicati nella guida. Eppure qui si erano svolti gli anni gloriosi del Liceo di mio padre e le prime esperienze al Forte, com’era chiamato in città il bordello popolare, frequentato da studenti, soldati, contadini… le prostitute che si disponevano in fila, in quell’enorme cortile, ognuna diversa dall’altra nelle loro buffe nudità: chi agitava i suoi enormi seni, chi si sfiorava il pube, rado di pelurie, in maniera ridicola, tutte comunque cercando di far coraggio a quei giovani uomini animati da differenti timori. E poi gli anni dell’università, le cameriere dei ricchi commercianti del centro, furbe e ingenue allo stesso tempo, ma piene di vita, desiderose soltanto di bruciarla con gioia, al termine del loro servizio, col primo studente che le facesse sentire importanti… E ora, dov’era tutto questo? La città era vuota, si rimbellettava nelle facciate dei suoi palazzi, e io avevo sottobraccio soltanto la riscrittura di un atto notorio che paradossalmente mi allontanava ancor più da quel mondo. Provai un senso di disagio, a ricordare quei momenti, e improvvisamente mi vennero in mente, tutti assieme, i rimorsi, i sensi di colpa, i fastidi, anche se pochi, di una vita passata assieme a mio padre, che, come per tutti, non poteva mai dirsi perfetta. Davanti a me, il cartello ormai indicava l’abitato di Montes, e, mentre ancora pensavo a mio padre e al terreno, invertii la marcia e scesi per una strada bianca che metteva paura. Il terreno stava giù, in una sorta di conca-anfiteatro ai piedi del paese. C’era anche una stradina e un agriturismo. Scavalcai il muretto di pietre a secco e salii per la ripida salita che portava a una specie di casupola dove erano presumibilmente conservati gli attrezzi da lavoro. Il terreno era vuoto di gente, e così mi divertii a indovinare i fantasmi del tempo che aleggiavano ancora tra i confini del podere. Sull’altro versante della collina c’erano i campi di grano. Il padre di mio padre l’aveva odiato quel terreno, tra l’infanzia trascorsa a staccare covoni e l’adolescenza quasi del tutto rubata alla scuola, e l’aveva salutato con sdegno prima di partire per Torino ed entrare nel corpo delle Guardie Regie. Quando sei anni dopo, con lo scioglimento del corpo, era tornato a Montes con il figlio piccolo, nemmeno più ci passava, a dare un’occhiata al terreno, quando percorreva la strada che portava alla bottega che si era aperto in paese con i soldi del re. Quello ora era il regno di suo padre, mentre il terreno rimaneva al nonno, sempre più chino sulle zolle, senza mai fermarsi, per recuperare, con rabbia, anche il lavoro negatogli dal figlio. Il padre del padre di mio padre era un contadino analfabeta.Marrareetriguerano i suoi verbi più frequenti. Però a Nino era stato lui a insegnare la matematica. Alle medie, mentre marravasu trigu, nonno Giommaria lo stuzzicava con problemi di matematica finanziaria che nascevano dalla sua esperienza di lavoro… «Se vendi 250 litri di vino a 50 lire l’uno quanto guadagni?», diceva, stuzzicando la naturale curiosità del nipote… Scesi sul versante all’ombra. Eccole, le viti, non le avevano ancora sradicate. Attraversai il ruscello. Quando Nino portava le vacche all’abbeveraggio nonno Giommaria gli stava dietro interrogandogli le tabelline… Era un uomo previdente. Sapeva che il nipote sarebbe diventato Revisore. Poi Nino andò a Sassari, e quando tornava a casa nonno Giommaria lo mandava nuovamente amarrareo a evitare lo sconfinamento delle vacche. Lì Nino, tra un lavoretto e l’altro, si leggeva qualche pagina per il prossimo esame e nonno Giommaria sorrideva soddisfatto perché sentiva un po’ suo quel successo. Ai figli, ai nipoti, diceva sempre che non si regala mai niente… Aveva ragione. Io questo terreno l’ho regalato e ora mi sorgono devastanti sensi di colpa. D’un tratto, da lontano, arrivò un uomo, che ora mi stringeva la mano… «Giuseppe Piu… e tu chi sei?» «Vincenzo», risposi, come se quel nome dovesse dirgli tutto… Strinsi gli occhi. Immediatamente mi tornò alla memoria la giornata trascorsa l’anno prima in città, e per magia quel nome… Giuseppe Piu, l’allevatore che aveva comprato il terreno, mi stava davanti, e io ne riconoscevo i tratti da quando l’avevo visto per la prima volta nella casa in paese prendere nota degli incarichi affidatigli da mio padre… «Bene, ma perché non eri presente lo scorso anno dal notaio?» «E poi, volevo che tu prendessi la decisione giusta per te…» «Ma io credevo di aver preso la decisione sbagliata…» «Come vedi, spesso bisogna lasciar fare alle cose…», soggiunse, sorridendo, e mi raccontò una storia… Su quello stesso terreno, nel ‘48, mio padre aveva sfidato il latifondista del paese, capolista Dc, e pur perdendo le elezioni aveva ottenuto più voti di lui. Tra il lancio del guanto di sfida e il verdetto delle urne erano trascorsi accesi comizi, con la folla schierata sotto il palco, e mio padre che predicava la ripartizione delle terre, la privatizzazione dell’energia elettrica, l’aumento dei salari dei braccianti… e quando qualche anziana, incerta, gli chiedeva dove apporre la croce, lui le diceva di farlo sopra la falce e il martello, che così li avrebbe cancellati in un colpo solo… Poi erano arrivate le prediche dal pulpito, e la scomunica, ma quella era un’altra storia, anche perché mio padre, che cattolico lo era veramente, non aveva ceduto, e anzi ci era entrato spesso, in chiesa, che lui ci credeva davvero in quel miracolo dell’ostia che era fatta, diceva sempre, pure quella col grano dei braccianti… Così, il giorno dello spoglio, non era stata una sorpresa quel primato di voti di braccianti e piccoli proprietari che gli aveva permesso, comunque, di entrarci dalla porta principale, in Municipio… Mi persi per un attimo in quei racconti, che erano stati i racconti che mio padre stesso mi rivolgeva per svelare il fascino del tempo, e mi accorsi che quell’uomo mi sorrideva ancora. Improvvisamente mi prometteva di mantenere il campo di grano e anche le viti. Mi chiamava figlio di mio padre, e finalmente capii. Lo abbracciai, e rivolsi la mia auto verso Cagliari, convinto finalmente di aver salvato, appena in tempo, forse senza volerlo, qualcosa di prezioso… Oggi ho liquidato il saldo rimanente relativo alla pratica del terreno. Mi sono sentito improvvisamente più leggero, come se improvvisamente mio padre mi avesse dato una pacca sulle spalle, di quelle che sottolineavano l’orgoglio che sicuramente, anche lui, provava nei miei confronti… ho infilato tutti i fogli nella busta verde e l’ho chiusa nel cassetto.