BRASILE: IL SOGNO DEL RITORNO DI LULA TRA CRISI ECONOMICA E RIFORME NEOLIBERISTE

Privatizzazione delle risorse naturali, tagli allo stato sociale. E ora una riforma del lavoro che elimina le tutele di base e indebolisce i sindacati. Dopo due anni di politiche neoliberiste, con queste credenziali il Brasile si presenta alle elezioni del 2018, che potrebbero vedere il ritorno dell’ex presidente Luis Inácio Lula da Silva, già capo di stato per due mandati, dal 2003 al 2011. Poi sostituito da Dilma Rousseff, deposta nel 2016, da un golpe parlamentare che ha portato al potere il suo vice e attuale presidente Michel Temer.In quell’occasione i quotidiani italiani si erano affrettati a parlare di una “Mani Pulite brasiliana”. Uno scandalo internazionale, legato a mazzette per aggiudicarsi gli appalti della Petrobras, la compagnia petrolifera di Stato. Il caso fu poi utilizzato nel 2016 per avviare una procedura d’impeachment contro la presidente Dilma Rousseff, mai accusata formalmente di alcun reato. Tanto che il teologo della liberazione Frei Betto non aveva esitato a parlare di “un golpe parlamentare, che rientra nella strategia del governo degli Stati Uniti per destabilizzare i governi democratici e popolari dell’America Latina”.E i risultati attesi, per gli Stati Uniti, non sono tardati: in questi due anni Michel Temer, detto “l’usurpatore”, ha attuato le tanto auspicate politiche neoliberiste, con il pretesto della necessità di aggiustamenti fiscali.Ultima, in ordine di tempo, la riforma del lavoro, approvata a settembre 2017 ed entrata in vigore il 10 di novembre. Si dice che farà da modello a quella che ha in mente per l’Argentina il presidente Mauricio Macri.Alla base della riforma, la possibilità che gli accordi individuali tra padrone e lavoratore prevalgano sui contratti nazionali, orari di lavoro flessibili (abolizione della giornata di otto ore, a favore di un massimo di 12 ore, senza però superare le 48 settimanali) e la fine della quota sindacale obbligatoria.“È ancora presto per valutare i primi effetti della riforma”, dice Adhemar Mineiro, economista e consigliere della Cut (Central única dos trabalhadores, la principale confederazione sindacale del Brasile). “Perché il mercato del lavoro in questo periodo dell’anno è molto particolare. Ci sono i contratti stagionali per le vendite natalizie, le ferie estive, la scadenza dei contratti a tempo determinato per docenti e lavoratori rurali. Per esprimere un giudizio dovremo aspettare metà febbraio. Immaginiamo però che i settori più colpiti saranno quelli dove è già facile assumere a tempo parziale o con contratti precari”.È tuttavia più che prevedibile che rendere precari i rapporti di lavoro, oltretutto nel bel mezzo di una grave crisi economica, porterà a un ulteriore aumento della disoccupazione, che oggi riguarda già 13 milioni di cittadini (oltre l’11 per cento della popolazione attiva).“Con le elezioni alle porte, questo avrà un impatto negativo per le forze che appoggiano politicamente il governo”, dice Mineiro. “Ma anche i sindacati saranno colpiti, soprattutto da quelle misure specifiche, come la fine della quota obbligatoria, che ne diminuiscono la rappresentatività”.L’obiettivo? “Cercare di sopravvivere”, risponde Mineiro. “Per i sindacati più grandi e quelli del settore pubblico sarà più facile; sarà molto dura, invece, per chi opera nel settore delle costruzioni, commercio e per le sigle meno organizzate. Nel medio termine, ci dovrà essere una ristrutturazione sindacale, forse inizierà dopo il periodo elettorale, dato che – in questo momento – molti dirigenti credono ancora nella possibilità che una diversa maggioranza in Parlamento possa fare marcia indietro rispetto ad alcune delle leggi approvate nel periodo Temer. A breve termine, i sindacati lavorano con tagli ai loro bilanci e vendita del patrimonio, per continuare a operare e rappresentare i lavoratori”.Intanto, la recessione economica iniziata nel 2014, a causa del crollo dei prezzi delle materie prime, si è trasformata nel 2017 nella più lunga e grave della storia del Brasile. Il Pil si è ridotto di 3,6 punti percentuali, l’economia si è contratta dell’8 per cento.Nessuna meraviglia che, in questo quadro catastrofico, il favorito nei sondaggi elettorali sia proprio l’ex presidente Lula, con preferenze stimate al 38 per cento. Lula, il presidente che, tra il 2001 e il 2013, è riuscito a ridurre la povertà estrema del 75 per cento. Con il progetto “Fame Zero”, lanciato nel 2003 (sussidi alle famiglie povere, purché facessero vaccinare i figli e li mandassero a scuola), la quota di popolazione malnutrita si è dimezzata ed è scesa sotto il 5 per cento, mentre la mortalità infantile è passata dal 28 al 18 per mille. Sempre nel 2003 l’indice di Gini, un numero che misura le disuguaglianze tra la fascia più ricca e povera della popolazione, è sceso da 0,59 a 0,52.Resta il problema delle indagini in corso, perché la cosiddetta “Mani Pulite brasiliana”, che tanto ha affascinato i giornalisti italiani, ha travolto anche l’ex presidente. Lula è attualmente incriminato in sei processi. In uno è stato condannato in primo grado a 9 anni e 6 mesi. A giorni è atteso l’appello. Quanto peseranno i suoi guai giudiziari sulle preferenze degli elettori? “Molto poco”, spiega Adhemar Mineiro, “dato che le inchieste riguardano in questo momento quasi tutti i candidati. Il problema per Lula non sono le accuse, ma le conseguenze giudiziarie che possono impedire che si presenti alle elezioni presidenziali, dato che la giustizia è molto concentrata sui suoi casi e quasi per niente su quelli degli altri politici”.