MECHELLI, PALLOTTOLE PER CHI DEVE CAPIRE
Un attentato minore, in cui si trovano le chiavi dell’insieme. Girolamo Mechelli viene “gambizzato” a Roma dalle Brigate Rosse il 26 aprile 1978. Il 18 aprile era stato “individuato” il covo di via Gradoli e diffuso il falso comunicato numero 7. Il 24 aprile arriva invece il comunicato numero 8 che:contiene la richiesta di scarcerazione per tredici detenuti politici in cambio della vita di Aldo Moro. Sembra aprirsi uno spiraglio: il governo di Panama, lo stesso giorno, si dice disposto a ricevere i terroristi, nel caso il governo italiano si decidesse ad accettare lo scambio e Il 25 aprile, mentre il segretario dell’Onu Kurt Waldheim rivolge un appello alle Brigate rosse, dalla sede della Democrazia Cristiana viene distribuita ai giornalisti la dichiarazione dei sedicenti “amici di Moro” in cui si legge che “Non è l’uomo che conosciamo”. Mechelli è un democristiano, il primo presidente della Regione Lazio, all’inizio degli anni ’70 condannato in primo grado e poi assolto in appello in un processo per infiltrazioni mafiose alla Regione. Poco conosciuto al grande pubblico ma importante nella scacchiera del potere locale Dc. Esce alle 8,15 dalla sua casa di circonvallazione Nomentana 182 e trova ad aspettarlo Antonio Savasta, all’esordio in un’azione di fuoco, Salvatore Ricciardi, Barbara Balzarani e Marcello Capuano. Gli sparano una decina di colpi usando anche la mitraglietta Skorpion che poi ucciderà Moro. Cade in terra, “urlava e si lamentava”, ricorda Savasta. Danni permanenti: un ginocchio spappolato, una gamba che resterà più corta di un centimetro, problemi polmonari cronici. Perché Mechelli? Sostiene Savasta al processo Moro che le Br volevano “approfondire cioè le contraddizioni all’interno della Democrazia Cristiana portando un attacco al suo personale proprio nel momento in cui si stava svolgendo il dibattito tra le forze politiche sulla trattativa o non trattativa. Questa azione era stata bloccata alcuni giorni proprio perché vi era il problema della trattativa. Si pensava cioè di dare ancora tempo alla Dc per vedere se la trattativa si apriva o no. … Per noi la trattativa era quasi il rispetto di una tregua, la possibilità di dare tempo alla Dc. Procedemmo invece con l’azione”. Una contraddizione palese. Il via libera all’azione avviene in concomitanza del comunicato numero 8 del 24 aprile. Il deputato Marco Boato pochi giorni prima, il 20 aprile, deponendo a Torino al processo contro il nucleo storico delle Br aveva rivolto un appello per lo scambio direttamente al suo amico e compagno di studi di Trento Renato Curcio. Il fronte della carceri, tagliato fuori da ogni decisione sul sequestro Moro, preme sui compagni all’esterno per proporre lo scambio. Il dibattito politico sulla sorte di Moro non dilania soltanto la Dc e le divergenze, tra i brigatisti imprigionati e gli operativi all’esterno, diverranno note soltanto dopo il sequestro. Ma ogni volta che si affaccia la prospettiva di una soluzione umanitaria, all’interno di entrambe le formazioni intervengono persone e avvenimenti che mettono fine all’ipotesi. Si prospetta la trattativa? Arrivano gli “amici di Moro” da una parte e i proiettili alle gambe di Mechelli dall’altra. Ma non solo. L’8 maggio 1978 sul Corriere della Sera si parla dei documenti trovati nel covo di via Gradoli. Due elenchi, uno con nomi di politici, militari, industriali e funzionari di enti pubblici, l’ altro di esponenti locali Dc, a livello regionale, provinciale e comunale. In uno dei due elenchi c’è il nome di Mechelli, ma la Digos si affretta a smentire con uno specifico comunicato che negli elenchi sia citato Mechelli, confermando quindi l’esistenza degli elenchi. Durante l’udienza del processo Moro del 12 ottobre 1982 viene fatto presente a Emanuele De Francesco, questore di Roma durante il sequestro Moro, che Mechelli aveva scritto una lettera di protesta a Cossiga lamentandosi che il suo nome era stato ritrovato tra i documenti sequestrati in via Gradoli sette giorni prima del ferimento, ma nessuno lo aveva avvisato di essere nel mirino dei terroristi. De Francesco non nega ma minimizza, sostiene che quel tipo di avvertimento si faceva solo se la scheda era ritenuta completa, Poi però si contraddice e afferma che la vigilanza su Mechelli venne effettuata, evidentemente all’insaputa dello stesso, e “per poco una pattuglia non catturò gli autori dell’attentato”. Grande il disordine e situazione quindi sotto controllo, tutto è ormai pronto per l’epilogo del 9 maggio.
