IL CORONAVIRUS DEI POVERI: INVECE DEL LOCKDOWN. CONSIDERAZIONI DALL’AFRICA SU CUI RIFLETTERE

Coronavirus pianeta terra. Le Nazioni Unite potenziano uno dei loro piani di risposta umanitaria alle crisi globali. Arriveranno a 6.7 miliardi di dollari le donazioni richieste per evitare una carestia di proporzioni bibliche, possibile prodotto di un virus per ora presente, ma non dappertutto. Solo quaranta giorni fa l’Onu aveva messo in conto un piano di 2 miliardi destinati alla medesima finalità, che oggi paiono insufficienti. Il Piano Global Humanitarian Response (GHR) ne affianca altri. Un Piano Regionale, uno destinato ai paesi latino americani, più altri piani speciali destinati a paesi come l’Iran. Nel rapporto che accompagna la richiesta di fondi si fa esplicito riferimento a un mix di fattori che potrebbero determinare la carestia, al sopraggiungere del virus. Le guerre e la miseria innanzitutto. Oggi le chiameremmo “cause pregresse”, come quando muore di infarto uno che senza il covid avrebbe tranquillamente campato non si sa quanti anni. Al vertice delle esigenze, per l’ insieme di questi interventi, i paesi definiti “top ten”, tutti considerati in guerra. Afghanistan, Bangladesh, Congo Kinshasa, Etiopia, Siria, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Venezuela, Yemen, anche chi, come il Venezuela avrebbe forse preferito non fosse considerata guerra una faccenda interna come l’avere a che fare col golpista teleguidato Guaidò. Nell’ultimo piano GHR le new entry sono poi costituite da Benin, Gibuti, Filippine, Liberia, Mozambico, Pakistan, Sierra Leone, Togo e Zimbabwe. Evidente il ruolo dell’emergenza covid nel corso dell’ultimo mese. Va notato infatti l’ingresso di due paesi con un numero di infetti superiore alle 10mila unità. Pakistan, oltre 25mila e Filippine verso le 11mila, che si aggiungono ad un’altra nazione (l’Ucraina in guerra) già oltre i 16mila contagiati. Mentre l’America Latina non è presente pure con i suoi oltre 300mila casi in quanto destinataria di fondi contenuti in un altro piano ad hoc. Pakistan e Filippine a parte, tra i nuovi arrivi, solamente Africa, con in testa Gibuti, quanto a numero di malati, peraltro di proporzioni ridotte. In poche parole, pare di vedere come il Piano, oltre ad avere un carattere di pronto intervento dove guerra, infezione e miseria, stanno creando le premesse della carestia, prefiguri un intervento di tipo in qualche misura preventivo e di “trattamento” dei casi, soprattutto per il continente africano. Lì dove finora il numero totale è relativamente contenuto (tra i 50 e i 60mila). In Africa, per di più, non paiono costituire il target di questo intervento i paesi col maggior numero di contagi e cioè Sud Africa, Egitto, Marocco, Algeria (solo l’Egitto però veniva compreso in uno degli altri Piani). Questo significa, tra l’altro che, sia pure su di una scala diversa, l’Africa sta riproducendo lo schema di diffusione proprio di altri paesi, Italia in testa. Maggiore diffusione là dove i collegamenti sono relativamente più efficaci e dunque i contatti più frequenti (Sud Africa e Maghreb), minore dove si perpetua di per sé, senza bisogno di lockdown, una condizione di marginalità e dunque di isolamento (il Sahel). Insomma gli emarginati se la caverebbero meglio, cosa non sempre vera, magari agevolati da temperature più calde con le quali il virus pare convivere con maggiori difficoltà. Ma proprio per questo bisogna pensare a loro. Perché se questa situazione relativamente favorevole venisse a termine, il disastro sarebbe maggiore che altrove e probabilmente piùin modo più repentino. Ricordiamo infatti che, dove i contagiati sono di meno, sono però relativamente in maggior numero i contagiabili. Una bomba virale che potrebbe peraltro, trasformarsi altrettanto repentinamente in bomba migratoria, con un Mediterraneo sempre più considerato via di fuga verso un altrove che non sia il luogo di residenza. Se prevenzione ha da essere, dunque, come prevenire? Non solo per fermare l’onda, ma per gestirla nel meno peggiore dei modi in caso dovesse alluvionare quei paesi. Da qualche tempo, nelle scienze sociali africane, il problema è preso in seria considerazione. Creare allarme non è tanto semplice da quelle parti. Come sostiene lo storico camerunense Achille Bembé gli africani si sono sentiti preannunciare catastrofi prossime venture a catena. In alcuni casi si sono realizzate, in altri fortunatamente no. Sarà semplice pretendere da loro l’adozione di un principio precauzionale? Su questo tema si dilunga in un interessante articolo uscito su il Manifesto del 7 maggio l’antropologa Elisa Pelizzari. Forte di un dottorato conseguito con Marc Augé alla EHESS di Parigi e in quanto direttrice della sede italiana della casa editrice l’Harmattan (ai vertici degli studi africanistici internazionali), è stata in grado di mettere in luce un aspetto inedito di come le scienze sociali in Africa stiano fornendo il loro contributo nella preparazione di una linea di difersa nel caso il virus dovesse propagarsi con forza presso di loro. Una linea di difesa che potrebbe riprodurre solamente in parte quella messa a punto in occidente. Punto fondamentale è il tenere conto che in Africa e soprattutto nelle zone più marginali come il Sahel, la sopravvivenza esiga una mobilità quotidiana come condizione necessaria al vivere. In attesa di un vaccino e al di fuori dei modelli magico-religiosi, va cioè considerato come la povertà non possa essere confinata, pena la morte del povero. La proposta di un antropologo africanista (Jean Pierre Dozon) è quindi di creare un’alternativa a quella che chiama la “costrizione profana” (più o meno il meglio noto lockdown) L’alternativa consisterebbe in un modello “contrattuale” in cui il diritto alla salute di cui siano garanti i poteri pubblici, interagisca con un dovere alla salute. Ogni cittadino diventerebbe così una sorta di paziente-sentinella a protezione dalla diffusione del virus. Utopia? Forse se consideriamo che i tempi potrebbero risultare stretti, ma teniamo conto del fatto che la famosa medicina legata al territorio, oggi ovunque invocata, altro non sarebbe che la traduzione pratica di questo modello. E inoltre anche in Europa una delle nazioni che meglio ha retto l’impatto del virus (il Portogallo) è quella che più pare avvicinarsi al modello contrattuale indicato. E per finire un contributo alle scienze sociali di un fisico epidemiologo di fama come Alessandro Vespignani, della prestigiosa Northeastern University (Usa). Forte della sua esperienza nel contrastare a suo tempo la diffusione dell’Ebola in Africa, Vespignani, in una intervista a Tpi.it, sottolinea a sua volta come sia possibile un trattamento collaborativo coi pazienti una volta che siano stati testati e tracciati. “…ti devo monitorare, misurare. E ti devo assistere. Al momento giusto, se sei negativo puoi uscire”. E a chi gli domanda se si possa fare anche in paesi come il nostro replica “Eh no! Qui mi incazzo…..Noi abbiamo costruito i modelli per il Congo e, le autorità congolesi li hanno implementati anche in zone di guerra! Si può fare in Congo e non si può fare a Milano?”. Le considerazioni di scienziati sociali e di scienziati hard, a volte si approssimano, quando l’urgenza stringe.