A PROPOSITO DEL VESTITO DI SILVIA ROMANO

Un’altra bella favola che tanti commentatori stanno raccontando, direi sopratutto quelli in buona fede (quelli in malafede nn ci arrivano proprio, gli manca il software) riguarda il vestito di Silvia, e mi pare che il dibattito assolutamente fuorviato verta sul tasso di “tradizionalità” dello stesso indumento in Somalia. Che dire, considero un talento la capacità di interrogarsi puntualmente sulle cose più inutili e irrilevanti. Insomma ma ‘sto vestito di Silvia è tradizionale? E quanto tradizionale, in una scala che va da uno al disegnare il vestito stesso sulla bandiera nazionale? La Somalia poi al netto della sua frammentazione è estesa due volte l’Italia, insomma, abbastanza grandina. Mi sapete per caso dire quali sarebbero i “vestiti tradizionali” dell’Italia? Sarà mica che al netto della globalizzazione che tende a uniformare e contaminare ovunque, forse i vestiti “tipici” della Valle D’Aosta sono un po’ diversi da quelli della Sicilia? Ma poi, che vuol dire tipici, e tradizionali? La tradizione non è mica immobile, ed è anche legata alla prassi, alla consuetudine. Persino una moda può diventare una tradizione, anzi direi che spesso che è proprio quello il passaggio, se la moda è “fortunata”. La scoppoletta mica nasce tradizionale, lo diventa col tempo. Io capisco anche le somale che rimpiangono i monili che indossavano le loro bisnonne prima dell’arrivo di influenze ultra conservatrici ma il mondo cambia. Anche al di là del fatto che la Somalia è infestata dai terroristi. Quello di Silvia certamente non è “la divisa dei terroristi”, come sostengono Sgarbi e altri turisti del tema, ma un banale jilbab, che è possibile vedere indossato da tantissime donne somale non solo nei campi profughi greci (e in questo ringrazio Elena Depi De Piccoli per la testimonianza diretta) ma anche al mercato dell’Esquilino a Roma. Li vendono pure, questi vestiti, anche del colore di quello di Silvia. Non so, volete fare una retata? È certamente possibile che quel vestito le sia stato dato dai terroristi, che certamente preferiscono vederla così che in gonna (ma allo stesso tempo è arci-noto che se ingiungono alle donne di mettersi una “divisa”, quella di solito è nera, non colorata). Ma è altrettanto doveroso precisare che se Silvia per assurdo si fosse liberata dal villaggio dove era prigioniera e si fosse boh, incamminata, avrebbe trovato km e km di villaggi con donne che indossano il jilbab, di ogni colore. Jilbab che non è troppo diverso da altri indumenti come l’abaya (più casto ancora), e bisognerebbe finirla di alimentare il meccanismo cognitivo per cui se una ha un velo così è “anti occidentale”. Offendete milioni di donne già solo in Italia. Oltre a metterle in pericolo, indirettamente. Che poi la diffusione di veli sia in parte retaggio della ingombrante e accresciuta influenza dei paesi del golfo in Somalia è un dato incontrovertibile ma a volte è anche un banale problema di appeal, di soft power, in definitiva economico, baby, as usual. Come ha ricordato anche la brava Igiaba Scego sono tante (non solo in Somalia, per la mia esperienza) le donne di paesi africani mediamente poveri che quando ne hanno la possibilità puntano a vestirsi come le donne del golfo per una questione di status symbol, di prestigio percepito. Un niqab (il velo nero che lascia scoperti solo gli occhi) in Nigeria ha un significato e una origine molto diverse da quelle che può avere in Qatar: nel piccolo paese del golfo nn troverete mai una donna povera (vabe, forse esempio sbagliato visto il reddito pro capite del Qatar) che indossi il niqab. Dopodiché, anche qui, i motivi per cui Silvia mette quel vestito li può spiegare solo lei, se ne avrà voglia, e non certo chi si dedica e sindaca estensivamente sul nulla.