IL TRENO DELLE POLEMICHE SULLE PRIVATIZZAZIONI E’ IN RITARDO

IL TRENO DELLE POLEMICHE SULLE PRIVATIZZAZIONI E’ IN RITARDO

La macchina del tempo esiste, è qui, funziona a meraviglia, la stessa meraviglia con cui si può leggere oggi un dibattito che andava fatto trent’anni fa, quello sulle privatizzazioni, sul meno-Stato-più-mercato, quello sui carrozzoni pubblici che, sostituiti dall’illuminata gestione dei privati, avrebbero dovuto diventare luccicanti carrozze di prima classe. Si potrebbe dire, pasolinianamente, “Io so”, ma non c’è bisogno di arrivare a tanto: basta un più modesto “io ricordo”. Ricordo molto bene (ahimé facevo già questo mestiere) le accuse a chi si opponeva alle privatizzazioni di tutto e di tutti. Le accuse di comunismo, di statalismo, di arretratezza e miopia riservate a chi si opponeva alle svendite di patrimoni pubblici e alle concessioni donate in allegria. Di contro, ricordo le odi al mercato che tutto sistema e tutto regola come per magia. C’è stato un periodo, nella nostra storia recente, in cui se solo ti azzardavi a dire che lo Stato doveva fare lo Stato e gestire i suoi beni (possibilmente con correttezza, senza assumere per forza i cugini dei cognati), venivi trattato come un VoPos della Germania dell’est posto a difesa del muro, un pericoloso comunista pronto a entrare nel Palazzo d’Inverno sfasciando i preziosi lampadari e sporcando i tappeti. Fu in quegli anni che si diffuse come l’epidemia di Spagnola l’uso indiscriminato della parola “liberale”. Tutto diventava liberale, così come tutto doveva diventare privato, e se qualcuno si metteva un po’ di traverso niente sconti: l’accusa terribile era quella di essere contro la modernità, reato gravissimo. “Statalista” suonava come “pedofilo”, come “brigatista”: pubblico ludibrio e risate di scherno. Non se ne fa qui una questione di schieramenti: destra e sinistra unite nella lotta, chi più chi meno, chi a suo modo, chi tentando di umanizzarlo e chi spingendolo al massimo dei giri, chi dicendo che andava regolato almeno un poco, chi diceva che era meglio lasciarlo libero e bello. Ma il pensiero unico di cui tanto si parla cominciò lì: il mercato non era una cosa discutibile, prendere o lasciare. Cadevano muri e ideologie, e ne rimaneva in piedi una soltanto: il mercato. Ora che anche fior di liberali ammettono che “alcune privatizzazioni” sono state fatte male, in fretta, con l’ansia di far cassa e senza alcuna strategia o prospettiva storica, con pochi controlli, con un orribile consociativismo tra chi concedeva e chi prendeva le concessioni, non c’è da provare nessuna soddisfazione: i buoi sono scappati, la stalla è stata spalancata per trent’anni, chiudere le porte ora sarà probabilmente una pezza piccola su un buco enorme. E anche questa concessione all’evidenza rischia di sembrare furbetta e funzionale: si ammette che qualcosa è andato storto per affermare, in sostanza, che il disegno è giusto ma c’è stata qualche sbavatura. Intanto il famoso mercato lo abbiamo visto in azione: in trent’anni ci ha regalato un paio di crisi durate dieci anni ognuna, un restringimento dei diritti (non ultimo quello di passare un ponte senza pregare tutti i santi), una precarizzazione di massa, la proletarizzazione dei ceti medi e tutto il resto che sappiamo. Il tutto accompagnato – in Italia – dalla vulgata (oggi si direbbe “narrazione”) che il pubblico era antico e il privato moderno. Poi, oggi, si trasecola apprendendo dagli schemini dei giornali che in Germania le autostrade sono pubbliche e gratuite, per dirne una, e nessuno si sogna, lassù, di pensare ai Land tedeschi come a repubbliche staliniste pronte a fucilare i dissidenti o a mandarli in Siberia. Oggi pare che si possa ricominciare a parlarne, ma il timore è che lo si faccia solo perché bisogna rimettere a posto i guasti dei famosi privati. Insomma, privato quando c’è da incassare e pubblico quando c’è da rimettere insieme i cocci.