CIAO PIETRO COCCIA
“Lo sai che è successo?” dice al telefono Francesca, ieri mattina. E capisci subito che non è una cosa normale,e nemmeno una notizia di qualche disastro successo in Cina o negli Stati Uniti. È una cosa che riguarda anche te. Anche noi che lavoriamo con i film, che ci incontriamo da un festival all’altro, in questa corsa continua che non ci si ferma mai. Tu, Pietro, ti sei fermato. All’improvviso, che nessuno se lo aspettava. Tu che da quella giostra non scendevi mai: Venezia, Berlino, Cannes, Los Angeles, Ischia, Capri, Il Cairo. Che posti belli, certo. Eppure, quanta fatica, quanta maledetta fatica. Pietro, facevi il fotografo. Lo sanno tutti, nel cinema. Tutti ti conoscevano: tu conoscevi tutti. Per qualche anno, siamo stati come fratelli. Aerei, taxi, pulmini presi insieme. La tua voce, la tua ironia. La tua amarezza. Perché eri colmo di amarezza, anche se non lo dicevi mai. Per tutte le foto che scattavi e che mandavi senza sentirti dire un grazie, per gli orari assurdi che ti trovavi a fare, un giorno dopo l’altro. E ti lamentavi con rabbia, a volte. Ma eravamo tutti così impegnati a correre e a lavorare che non ti abbiamo dato retta. Eri colmo di amarezza per chi vedevi diventare famoso senza meritarlo, per chi vedevi faticare poco e ricevere tanto dalla vita: per chi vedevi divertirsi, ai festival. È difficile spiegare cosa sia un festival per chi ci lavora, come facevi tu, fino all’ultima goccia di energia. Le tue fotografie dovevano sempre esserci. E tu eri sempre pronto ad alzarti e andare, scattare. “C’è un’attrice laggiù, Pietro”, “c’è la presentazione del film tra dieci minuti”, c’è il red carpet, il photo call, l’attore che è appena sceso dall’elicottero, dal motoscafo. E tu lì, sempre in prima fila. Con un corpo difficile da gestire. Fare il fotografo come lo hai fatto tu vuol dire muoversi con tanti chili addosso, con due o tre macchine fotografiche a tracolla, con teleobiettivi che pesano come pezzi di artiglieria. E farlo vestiti da sera: con la camicia bianca e la giacca nera, anche d’estate. Sai quanto può essere bestiale, quanto può essere faticoso? Ai pranzi e alle cene tu non ti sedevi mai. Ti appoggiavi un attimo, o meglio appoggiavi il borsone con gli obiettivi e le macchine fotografiche, a un tavolo di colleghi, e afferravi con foga, ma quasi di nascosto, un pezzo di pane. O afferravi una bottiglietta di acqua gassata. E poi via a fare un nuovo scatto. Mi chiedo a che cosa è servito tutto questo, adesso che ti hanno trovato senza vita, a 56 anni, la stessa età che ho io. Quando ero ragazzino pensavo che 56 anni fossero già un’età importante. Ora so che uno si sente ancora un ragazzo. A che cosa è servito tutto questo? Era la tua vita. E non so se ne avresti saputa immaginare un’altra. Sentirti dentro questo circo era il tuo modo di stare al mondo. Lo hai fatto con generosità. A chi te la chiedeva, non rifiutavi mai una foto. “Pietro, per favore, mi scatteresti una foto?”. Clic. Clic. Te lo chiedeva anche l’attrice famosa, te lo chiedeva il regista, te lo chiedevano tutti. E tu, a notte, le mandavi quelle foto, finita una giornata stressante. Da pietrococcia@tin.it . Quanti di noi hanno, nella posta, gli invii di qualche jpg, e noi vestiti da sera, che sorridiamo, a una festa del cinema, come nel finale di Shining. Ti lamentavi degli orari, ti lamentavi della fatica, ma continuavi a lavorare senza fermarti mai. Perché? Non per i soldi, certo. Nessuno di noi è ricco, nessuno di noi che ci sbattiamo per scrivere un articolo o per scattare una foto. Non eri di quelli che a Cannes vanno a mangiare nei ristorantini sfiziosi. Eri sempre lì con il tuo computer e le macchine fotografiche. Molti anni fa, ti consigliai di portarti dietro meno peso, qualche chilo di meno di tutto quell’armamentario. “Che te ne frega, Pietro: invece di tre macchine fotografiche, portane solo una. Invece di sei obiettivi, portane due al massimo. E niente borsone, porta un trolley, così la fatica la fanno le ruotine”. Mi guardasti male, e mi ripetesti con sarcasmo quel consiglio per molti anni. Come se avessi voluto sminuire il tuo lavoro. Era solo che mi faceva dolore vederti portare tutta quella roba, come una croce da trascinare. Le attrici, le aspiranti attrici, le star, le stagiste: le conoscevi tutte, le fotografavi tutte. E sapevi parlare con loro come se fossero delle compagne di classe, con confidenza. Parlavi allo stesso modo ad Asia Argento e all’ultima volontaria di un festival, a Carolina Crescentini e ad Helen Mirren. E tutte ti conoscevano, tutte ridevano con te: Laura Morante, Maria Grazia Cucinotta – la ho sentita ieri, era davvero addolorata per te – o Madalina Ghenea. “Pietro, Pietro, Pietro” era il loro mantra. E ti volevano bene. Facevi loro tante foto, perché di sicuro eri innamorato della bellezza. Ma non hai mai fatto o detto niente di irrispettoso. Sei sempre stato un puro, e tutto sommato un timido. Eri solo. Non ti ho mai visto in vent’anni a un festival con una ragazza, una fidanzata, un’amica, una complice. Finita la festa, finita la conferenza stampa, finito il festival, tutti a casa. E di quello che eri, di come vivevi, probabilmente in pochi sapevano qualcosa. Forse nessuno ha saputo penetrare quella solitudine, al di là delle chiacchiere, al di là della tua voce sonora, sempre un po’ declamata. Quella voce con cui ogni tanto imitavi il toscano, quando eri con me. “La porti un bacione a Firenze”, oppure citavi i sindaci che abbiamo avuto: “Gabbugiani” – lo dicevi con una sola g – o La Pira, Bargellini… Non ce li ricordiamo quasi più neanche a Firenze, ma tu te li ricordavi. E citavi i cantautori degli anni ’70, Claudio Lolli, o per ritornare alla Toscana parlavi di Boccaccio e citavi Dante, sempre con un po’ di ironia. “Non conosci Giovanni? È un fine intellettuale”, dicevi alle attrici che avevano fatto il film d’esordio, e che ti guardavano disorientate e indifferenti. “Giovanni ha scritto libri su Peter Greenaway e vari romanzi…”, e qui la loro attenzione si spegneva definitivamente. Poi dicevi loro che stavo facendo un film con varie attrici che leggevano una pagina del mio romanzo, e che ci potevano essere anche loro, e vedevi a volte qualche lampo accendersi nei loro occhi. Facevi degli assist, li regalavi. “Un intellettuale come te, Giovanni, una persona perbene, trattato così nel suo lavoro…”, dicevi. E oltre che di me, parlavi anche di te. Trovavi sempre il lato buffo delle cose, però. Quante battute, nei pulmini che ci portavano – registi, attori, giornalisti – alla cena dopo il film. Parlavi tanto con la tua voce cantata, romana ma non romanesca. Chissà se c’è, da qualche parte, una registrazione della ta voce. A Los Angeles eravamo nella stessa camera. Arrivati insieme da Berlino, una stracannata interoceanica. Era notte, tu mandavi foto in Italia. “Vedi Giovanni, queste foto vanno mandate adesso, e non posso fermarmi, non pos…”. Zzzzzzzz, cominciavi a russare. Venti minuti dopo, dal nulla, tu spalmato sul letto riprendevi dalla sillaba esatta in cui ti eri fermato, come se qualcuno avesse premuto il tasto pause: “…so non mandarle adesso, devono pubblicarle tra poche ore, ma sono trop…”. Zzzzzz. E venti minuti dopo: “…pe, veramente troppe”. Voglio pensare che uno di questi momenti di black out sia stato più lungo degli altri. O che tu ti svegli, da qualche altra parte, riprendendo dal punto esatto in cui eri rimasto. Il lembo della camicia ti usciva sempre fuori dai pantaloni. Le tue camicie bianche. Un giorno a Cannes, tanti anni fa, mi dicesti: “La mia valigia? Cannes dura tredici giorni. Dunque tredici camicie bianche, e una giacca nera. Ecco come faccio”. Mi sembrò una regola perfetta, e da allora feci lo stesso. Quel lembo della camicia, non hai avuto nessuno che ti dicesse “mettilo a posto”. O che ti pulisse le lenti degli occhiali, e te li restituisse con un sorriso. Penso che se tu lo avessi avuto, tutto sarebbe stato diverso. “Maestro Favino, si volti da questa parte”; “Professor Bellocchio, guardi qui”, “dottoressa Morante, anche qui a sinistra”: li chiamavi tutti professori, maestri, dottori. Con ironia, sì, ma anche come se fossimo tutti a scuola, e stessimo facendo tutti qualcosa che riguarda il Bello, il sapere, e non il mercato, il business, i soldi. Non sapevo che tu fossi figlio di un latinista famoso, e che tua madre fosse allieva di Ungaretti. Non sapevo dei ventimila libri che respiravano in casa tua. Ma la sentivo, la cultura, in ogni parola che dicevi. Come la sento in ogni parola che dice Carlo Verdone, anche se non esibisce mai nulla. Prendevi i biglietti d’aereo con mesi d’anticipo. Adesso, a giugno, sicuramente avevi già fatto il biglietto per Berlino, per il festival a febbraio. E mi avresti detto “Giovanni, l’hai fatto il biglietto per Berlino? Adesso costa solo diciannove euro”, e io, sempre, “Pietro, non so che cosa faccio domani, figurati a febbraio 2020!”. Non lo userai, quel biglietto. E chissà che fine faranno quelle tue macchine nere, pesanti, sfinite dall’uso, e tutte quelle foto che rimarranno seppellite nelle tue schede sd e nei tuoi hard disc. Un pezzo di storia del cinema italiano, un pezzo di storia di questo circo sballato che comprende attori, registi, sceneggiatori, distributori, dirigenti d Raicinema e anche giornalisti. A febbraio ci sarà un posto vuoto su un aereo da Roma a Berlino. E tanti altri posti vuoti, dappertutto, in tutti i festival che ci saranno, in tutti i prossimi giri di questa giostra.
