IL CALDO, GLI OPERAI
Ieri, attorno alle 18, due operai stavano seduti sul marciapiede di una strada che avevano tagliato, bucato, dove avevano aggiustato un tubo, poi ricoperto senza aver però ancora finito. Stavano per terra senza scarpe, con le calze che erano state bianche e adesso erano sporche di terra e sabbia, non tenevano neppure su la schiena, si lasciavano vivere lì, ingobbiti, in silenzio. Questa mattina, al Valentino, due di quelli che smontano le impalcature del Salone dell’Auto erano statue fatte carne, come se i loro corpi avessero avuto vita da un’opera d’arte. Magri, ogni muscolo prendeva forma e si esibiva tutte le volte in cui sollevavano un pannello, una lastra. Uno aveva i capelli con la cresta come il calciatore El Shaarawy, qualche tatuaggio, l’altro un orecchino nero che gli penzolava da un orecchio. Avevano ben poco dell’immagine che si costruisce in palestra, l’armonia dei loro lineamenti prendendo vita dagli improgrammati movimenti del lavoro fisico, e non dalla costruzione artificiale. Si muovevano veloci, con un gheddu, una carica come se ogni sollevamento anziché togliere donasse loro un surplus di energia. Corpi da vedere, toccare, anche per aver prova: possibile siano veri? Nel tempo in cui sono passato loro accanto, due donne che camminavano li hanno guardati, poi dopo cinquanta metri sono tornate indietro, c’è da supporre per ri-guardarli. Un’amica si è fatta lo scrupolo, non potendo muoversi eppure avendo bisogno di una consegna da un negozio a casa, che il corriere soffrisse il caldo. Poi ha pensato: Magari, se è africano, il caldo lo soffre un po’ meno. Il senso di colpa si è spostato: dall’aver fatto muovere con questa temperatura un operaio, all’aver pensato che un africano il caldo lo soffra di meno in quanto africano. In tanti le abbiamo detto: Tranquilla, è un pensiero normale. Stasera ho chiesto al mio verduriere, africano d’origine, se il caldo lo soffre più in Africa o a Torino, mi ha detto più a Torino. «Qui c’è umidità, là no: all’ombra, là, sei salvo. Qui no». Poi sono passato su un altro marciapiede bucherellato, in un altro quartiere, su una passarella pedonale provvisoria, e ho camminato proprio sopra a una piccola trincea che un operaio stava scavando ficcando martellate alla terra e alla pietra. Aveva la maglietta fradicia. E così, prima di rientrare, mentre pensavo agli operai, ho visto la prostituta all’angolo, tutta caruccia, con il rossetto e il trucco a posto, la camicetta senza pieghe, che aspettava all’ombra; e mi è venuto da pensare al suo, surplus di energia, di cui ha bisogno per tornare caruccia com’è quando attende, immaginando che questo caldo aumenti il disgusto e quindi il fabbisogno di energia per rimuoverlo. Non lo so, magari è un pensiero confezionato, come quell’altro per cui gli africani non soffrono il caldo – in fondo che cosa ne sappiamo di cosa si prova a fare cose che non abbiamo mai fatto, a essere persone che non siamo mai state?
