QUINDICI ANNI DOPO RITROVO LA MIA TORINO MULTIETNICA
L’autore dell’articolo vive a Caracas ed è tornato nella sua città quindici anni dopo e i cambiamenti sono evidenti. E’ una Torino notturna quella che s’apre allo sguardo, per poi sparire nella bocca di una Metro che lancia segnali in italiano e inglese ad ogni fermata. Una scala dagli scalini mai fermi porta nella stazione Porta Nuova, qui inizia San Salvario il quartiere multietnico che si butta nel Po che scorre nel suo gelido silenzio.Quartiere del degrado, della movida delle 4 religioni e dell’immigrazione tutta : da quella dei terroni, dei vu cumprá ai mandorlati,” ai latino amaericani che sembrano quasi italiani come quelli del sud. Via Saluzzo scorre sotto i piedi sicura come il freddo che abbraccia, mentre tre persone di colore passano veloci come ombre senza luce della notte. E dietro un angolo, un gruppo di nord africani, scherza in un arabeggiante francese condito con parole italiane e qualcuna dialettale di dove toccarono terra.Attraverso una miriade di dehor plastificati per resistere al freddo che sembra salire dall’asfalto. Facce sorridenti di giovani dalle barbe che cercano ancora di coprire il viso e ragazze a sfidare il gelo in minigonne a mostrare fuseau che ricordano mute da sub. I menu dall’esotismo piemontese ci vengono consegnati da un cameriere bianco, con capelli fermati in una onda che non trova una spiaggia dove rompersi. I tavoli del quartiere multietnico della cittá sembrano una riunione della supremazia bianca.Sono al tavolo con vecchi amici che in modi diversi lavorano da decenni nel sociale torinese e hanno avuto ed hanno esperienze di lavoro di ”bassa soglia” , un modo per dire centri, in cui le porte sono a livello della strada senza scale, a decidere criteri d’umanitá ma solo accoglienza. Sono passati secoli dai nostri incontri. All’arrivo del menu tutti a calzare gli occhiali e al guardarci un solo ridere. Finalmente ho un momento multietnico, un indiano cerca di venderci una rosa rossa come le stufe che scaldano la pelle ma non il cuore: no grazie.Il multietnico commerciale é l’unico reale, che sia il fiore della strada o il negozietto dell’africano o l’impresa di muratori rumeni. Non c’é resistenza razziale ma solo affare. Un multietnico insomma antico, come i commercianti arabi che incontravano i greci in un porto romano. Cammino e quasi come una conferma vedo un conciliabolo tra un bianco e un nero ma anche lí é solo commercio anche se di droga. Nessuna comunicazione, solo un dare e avere e due parole che servono a mantenere le distanza: ”Maledetto negro le dosi sono sempre più piccole. Tossico si ma negro no”. “Tossici di merda, si credono tanto… bianchi”Ricordo lo scandalo provocato dall’ex sindaco di Torino, a metá degli anni 70, all’affermare che :”Torino era la cittá più meridionale del nord”. Il “ne “piemontese a finire le parole con tutte le tonalitá di domanda, risposta e affermazione si scopriva solo e un po’ abbandonato sulle colline della cittá, brillanti della fatica delle catene di montaggio che giravano senza tempo e senza pausa. Eppure non c’é una pietra di questa cittá che abbia perso la sua identitá culturale quando era ed é realmente elemento culturale condiviso e condivisibile, che si é arricchito di cose nuove portate dai terroni. Gente disperata come mio nonno che spostó l’accento sul cognome per cercare d’essere piú piemontese. Che obbligó i figli a parlare piemontese senza insegnargli una parola del suo dialetto. Mentirei se non dicessi che da tutto questo, mio nonno, imparó un razzismo estremo, odiando tutti gli emigranti, con un’attenzione speciale per i calabresi, nemici atavici.Ed é abbandonando il multietnico chic della movida su uno sconquassato tram che si lancia verso la barriera, nome fantastico della periferia torinese, che sembra solo piú lontana. E in un bar qualsiasi, per scappare dal freddo, inciampo in un tavolo dove un emigrante parla con un italiano mentre una ragazza musulmana passa e sorride. E una signora spiega all’amica che é uscita solo per prendere la medicina per la vicina marocchina che “s’ammalata”. Se cercate il razzismo estremo che si fa solidarietá, basta andare nella povertá. Qui, in questa barriera di Milano, lontana dal multietnico e dallo chic, tra bande etniche e religiose, razzismi variopinti, si getta ancora un seme di speranza.
