BETTER THAN US. PERO’, QUESTI RUSSI

BETTER THAN US. PERO’,  QUESTI RUSSI

Lo confesso: sono un vecchio lettore di fantascienza, nel senso che lo ero una volta, e adesso non lo sono più. E’ un vecchio amore venuto a noia: succede. Al punto che, quando sento nominare le famose leggi della robotica (1. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. 2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. 3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e con la Seconda Legge.) mi prende la nervatura. Ecco perché mi sono avvicinato a Better than us, la nuova serie di Netflix, con una dichiarata diffidenza. Quello che mi ha stimolato, lo ammetto pubblicamente, è che si tratta di una serie russa, ed ero assai curioso di vedere cosa fossero riusciti a combinare gli ex oltrecortina. Altra ammissione: mi ci ero approcciato con il pregiudizio russo=povero. Ora, io non ho niente contro i pregiudizi, anzi. Li trovo comodissimi, fanno risparmiare un sacco di tempo. Non in questo caso, perché Better than us è chiaramente un kolossal, nel senso che in ambientazioni ed effetti speciali hanno speso un botto di soldi: e li hanno spesi bene, devo dire, senza esagerare ma nemmeno lesinando. E questa è una delle cose buone, per cui, vediamo un po’ il punto debole della serie. Che è la trama: la serie è davvero troppo lunga. C’è una serie di rapimenti e acchiapparelle che alla fine (guardate e mi darete ragione) che alla fine ti fa sperare che al protagonista gli sparino e basta là, perché se A rapisce B, poi C frega A e gli rapisce a sua volta B, e a questo punto A si incazza, spara a C e si riprende B, che però poi scappa per finire di nuovo in braccio al rapitore A, che nel frattempo è tallonato da C che vuole riprendersi A, e va a finire che dopo una ventina di queste tarantelle non ci capisci più niente e finisci col confondere A, B e C. Questa è la cosa negativa, L’unica, ma pesante. Però. Però la regia è buona, davvero, e gli attori sono tutti bravi, perfino Paulina Andreeva che fa il robot e, udite udite, si chiama Arisa come la nota cantante, alla quale, per fortuna della Andreeva, non somiglia affatto. Perché è indiscutibilmente russa. Sono tutti indiscutibilmente russi, in questa serie, come se stessero titillando tutti i luoghi comuni che ci portiamo in testa. C’è la bionda dalla fronte troppo alta, c’è la ragazzina da centro sociale che però ha mani da contadina ucraina avvezza a sgozzare tirannosauri da servire a colazione ai suoi settanta figli, c’è quello con la scritta KGB tatuata ovunque, c’è il punk che non riesci a immaginarti fuori da un manifesto di propaganda sovietica, c’è quello talmente slavato che pare cresciuto nelle fogne di Stalingrado. L’unico che sfugge ai cliché è il cattivone dei cattivoni, Viktor Toropov interpretato da Aleksandr Ustyugov. Non riuscivo a smettere di guardarlo, e all’inizio non riuscivo a capire perché, finché non ho realizzato che è uguale ad Aldo Maccione, però magro. Lo stesso nasone camuso, lo stesso capello grasso, la stessa faccia che detesta prendersi sul serio. Per fortuna che c’è lui, perché è tramite lui che capiamo che la serie non è affatto sui robot, ma sulla proverbiale corruzione dei russi, che siano comunisti o meno. E’ per questo che, tarantelle a parte, Better than us è una bella serie, che vi consiglio. Su Netflix. Ah, a proposito: nasdarovie (chiedo scusa fin d’ora agli amici russi).