RACCONTINO VENEZIANO. ECCO, ORA L’HO MESSO TUTTO
Raccontino Veneziano. Ecco, ora l’ho messo tutto1. Il busAnna come sono tante, Anna che di sicuro non si chiama Anna. Stella di periferia. Stella di un bus dove siamo soltanto io, lei, l’autista e una mamma sui quaranta, bionda e con le scarpe Superga. E con un bambino che si butta per terra per ripescare il giocattolo che ha buttato via. Scivola come un marine sul pavimento sporco del bus, rischiando a ogni frenata di battere la testa contro mille spigoli. Poi torna, trionfante, col giocattolo. Per poi farselo sfuggire immediatamente dalle mani. E si divincola dall’abbraccio della mamma, per andarlo di nuovo a cercare, mentre l’autobus prende una curva a tutta velocità.Ci sono poche curve, però, in questa strada. Tutta dritta, costeggiando la laguna, da qualche parte lontano c’è Venezia, c’è piazza san Marco, e ancora più in là c’è Porto Marghera, ciminiere e fumi, l’arte e la fabbrica, i turisti giapponesi e gli operai. Ma è tutto lontano, qui. Visto da qui, qui siamo ai confini del mondo. La mamma riprende il bambino, se lo abbraccia.Il bambino è biondo, selvaggio, ha l’aria da guerriero, sfida la madre andando di nuovo a esplorare il pavimento del bus. La madre lo riacciuffa prima che affondi negli scalini per scendere dal bus. E lo consegna a un uomo che non avevo proprio visto: il padre. Un uomo con gli occhiali e pochi capelli. Appena affidato al padre, il bambino urla come nemmeno Lucio Dalla quando improvvisava vocalizzi jazz. Ecco, mi capitasse mai di avere un figlio, forse sarei come quel padre. Invisibile, e indesiderato.Anna non guarda. Guarda dall’altra parte, verso il finestrino. Verso la laguna. Chissà. Chissà cosa pensi. Sei seduta di fronte a me, guardi un cielo che si è appena spogliato della pioggia. Hai i capelli scuri, sopracciglia forti. Gli occhi non riesco a guardarli. Hai una maglietta scura, a maniche corte, anche questa domenica pomeriggio, appena presa a schiaffi da un uragano, è gelida come una domenica di dicembre. Quando le partite a calcio diventano importanti.La tua bocca esprime, come quasi tutte le ragazze nell’autobus, una specie di moderato disgusto. Come quando si deve mangiare una minestra che fa schifo, ma non possiamo dirlo. L’aria con cui ci inoltriamo nel mondo, quasi tutti.2. Il circo dopo lo spettacoloL’ho deciso così. Prendere un bus, in questo pomeriggio vuoto, nato per sbaglio. Perché non ho preso il pullman che mi doveva portare a casa, e sono rimasto al Lido, quando tutto è finito. Il giorno in cui arrotolano i tappeti rossi, in cui i camion portano via tutto, passi dove ieri sera c’erano centinaia di ragazzi che aspettavano di fronte al red carpet, e oggi ci sono solo operai che buttano rotoli di cavi dentro i camion, ci sono furgoni che violano lo spazio fino a ieri difeso dalla polizia, che controllava gli zainetti e le borse di tutti, e ti faceva abbandonare anche i pennarelli e le lime da unghie. Stamattina quello spazio sacro è diventato terra di nessuno, flagellata dal vento e dalla pioggia. Hanno spento anche il sole, oggi.Il languore del circo prima o dopo lo spettacolo.Rimane solo la tenda, il Palazzo del cinema bianco e desolato, con le saracinesche abbassate come un qualsiasi negozio. E forse stasera smonteranno anche quello, chi lo sa. Chi l’ha mai visto, il Lido dopo la fine della Mostra.Stavo per andare a prendere il vaporetto, quando il cielo è diventato viola, e non si distingueva più la notte dal giorno. E vento e acqua, il mondo impazzito, gli ombrelli strappati, il rumore di terremoto di una pioggia feroce, e grandine e gente in fuga. Torno a casa, prigioniero, guardo fuori e tutto d’improvviso è buio, Dio ha spento la luce, le piante della strada sembrano sotto un diluvio amazzonico. Ho tre bagagli, devo trasportare quelle nel vaporetto, con l’ombrello, uno zaino dietro la schiena e uno davanti. Sotto la grandine.Faccio, allora, una cosa che non ho fatto mai: decido di rimanere un giorno in più. Cambio il biglietto, con meno di dieci euro ho un biglietto nuovo per domani. E il padrone di casa mi concede questo privilegio, rimanere al Lido, nel giorno in cui il circo non c’è più.E alle cinque di pomeriggio, la pioggia scompare. Senti quell’odore di umido buono, e tra le nuvole spunta persino il sole. Ho un giorno tutto per me, senza film da vedere, senza niente da fare. Non posso stare dentro casa. Esco. E vado a prendere un bus, quello che va più lontano possibile.3. Pellestrina11 PELLESTRINA. C’è scritto così, su quel bus. Con grandi caratteri in stampatello maiuscolo. Non so dove sia Pellestrina. Ma so che è una specie di isola, che si passa un tratto di mare per arrivarci. Come, non lo so. Ma faccio un biglietto, salgo su. E nel bus c’è Anna.Ha i capelli lisci, scuri, lunghi, e li tiene davanti, sulla maglietta a maniche corte. Ha molti bracciali ai polsi, e due collanine d’oro al collo. Un piccolo anello al dito medio. Ogni tanto, si prende i capelli e con un gesto deciso li butta dietro. Lascia scoperta la maglietta, il seno giovane, forte. Chissà quanti anni avrà. Ventuno, ventiquattro, chissà.Ogni tanto guarda il telefono. Con gesti veloci delle dita, le unghie laccate scivolano sullo schermo rapidissime. Ha unghie lunghe, perfettamente laccate, di un colore che per me è beige, ma forse ha un nome molto più cool: color occhi di gatto, o mandorla amara, o Primavera di Shanghai. Chi lo sa.Mi viene in mente quanti viaggi in treno ho fatto, prima che esistessero gli smartphone. Quando c’erano solo i silenzi, e l’arte delicata e fragile di provare a parlare con qualcuno che non conosci. O la sofferenza di passare ore senza avere il coraggio di parlare, senza trovare uno spunto, un’occasione, un’osservazione da fare, per cominciare qualcosa che poteva durare un minuto, un’ora, una vita. E poi, quei momenti in cui la fiamma delle parole sta per spegnersi, e non ti viene niente di interessante più da dire, o quando senti che i sorrisi che lei ti sta facendo sono diventati più stanchi, più forzati, e tutto sta per tornare allo stato iniziale di silenzio, di estraneità.Ma adesso tutto questo è reso impossibile. Anna – che forse si chiama Asia, Melissa, Emily, Azzurra, Samantha – non ha bisogno di niente. Guarda il suo smartphone, ha le sue amiche, il suo ragazzo. E dentro sorride. Anche se al mondo fa vedere la sua faccia disgustata. Scoraggiante. L’ho vista tante volte quella faccia. Che quando la incroci per un attimo, sembra che tu abbia dato una risposta assurdamente sbagliata a una domanda semplice. Una faccia così.Sì, ma qual era la domanda?4. La balenaIl bus corre nell’estremo West del Lido, nei luoghi dove andavo a dormire, i primi anni in cui venivo qui alla Mostra. C’era una specie di ostello, che sapeva di candeggina e di religione, con le pareti bianche, i pavimenti di ceramica sempre puliti, i rumori delle porte che sbattevano sempre, otto letti in una stanza e luci al neon con tubi di dieci metri al soffitto, nessuna luce per leggere, al comodino. Fare il festival col coltello fra i denti, ed emozionarsi quando in edicola compravi il giornale e trovavi il tuo nome.Il bus va oltre, adesso. Oltre il confine dei mondi conosciuti. Qui ci sono solo erba e acqua. E lì, alla fine del mondo, c’è una nave che ci aspetta. E il bus ci si infila dentro senza nemmeno rallentare, come Pinocchio dentro la balena, come un piede dentro una scarpa. Da qui in poi, non so davvero che cosa c’è di là.Il bus sta dentro la sua crisalide/nave, e io mi faccio coraggio. E chiedo a quella ragazza che è rimasta nel bus, chiedo ad Anna – o Janet, Jennifer, Ginevra, Viola – “scusami…”. Lei alza gli occhi. “Sapresti dirmi qual è il centro di Pellestrina?”. Lei alza gli occhi, e fa un sorriso bellissimo. Che non me lo dimentico.5. The KeysLa ragazza mi sorride con l’aria di avere risolto un enigma. Ecco chi sono: un turista finito fuori rotta. Un balenottero piaggiato qui su questo bus. Invece di essere in piazza San Marco, o sul ponte di Rialto a comprare souvenir, invece di scattare foto al Canal Grande, invece di andare in gondola con una fidanzata, invece di essere in una crociera nelle navi a tremila posti e a tredici piani, sono qui. Nato dalla pioggia, come un fungo o una lumaca. Che mi inoltro piano piano, lasciando una bavina di incomprensibili domande. “Qual è la fermata del centro di Pellestrina?”, come se stessi parlando di Roma.È un sorriso divertito e protettivo, il suo. Capisce che non ho la minima idea di dove sto andando. I suoi occhi si fanno buoni, e vedo solo adesso che sono verdi. La bocca si fa tenerissima. È difficile dire come era bella in quel momento.“Ma Pellestrina non ha un centro, a Pellestrina non c’è niente…” mi dice con accento veneto. Si sta scusando. “Pellestrina è una striscia, non c’è niente… Ah! Però puoi andare alla chiesa, aspetta…”. Prende lo smartphone, che ha lo schermo frantumato come in un film horror, ci passa le dita sopra come se lo stesse suonando, un piccolo pianoforte che alla fine dà la sua nota: chiesa di Ognissanti. “Devi scendere alle Tre rose, e da lì si vede tutta la laguna…” dice Anna.Intanto la nave scivola verso l’altra riva. Tutto è orizzontale. Terra, acqua, erba. E poi siamo dall’altra parte. E il bus continua ad andare dritto, assolutamente dritto, senza una curva, perché c’è solo una strada dritta, una strada dritta in mezzo al niente. A destra, a pochi passi, c’è la laguna.Non ci sono strade, non ci sono case, non ci sono negozi ai lati della strada. Il sole è tornato a splendere, io ora che mi ha sorriso voglio continuare a parlarle. E le dico “ma questo posto è pazzesco: è la cosa più esotica che ho mai visto”. Lei mi guarda, aspetta che io prosegua. “C’è un posto, in Florida, si chiama The Keys, le Keys. Sono strisce di terra, proprio come qui, strisce di terra di fronte all’Oceano. Ci abitava Ernest Hemingway”, le dico. Ma chissà che cosa le arriva. Hemingway… Le Keys? Le chi? Ma che cazzo saranno? Ma mi guarda ancora sorridendo, come se dovesse proteggermi.6. Johnny DeppMi dice che anche lei non è di qui. Viene da Mestre, e sta andando a trovare suo padre, che vive lì. Lei vive con la madre. E non deve essere divertente, passare due ore della domenica pomeriggio per attraversare tutta la laguna e arrivare fino a Pellestrina, da Mestre. Ci vogliono due ore e mezza, dice. Un treno, poi una nave, poi un bus che va dentro un’altra nave.Chissà qual è la tua vita, chissà come saranno i tuoi giorni.Parliamo della Mostra del cinema, e sospiri dicendo che quest’anno non l’hai vista, e c’erano Brad Pitt e Johnny Depp. E io mi chiedo “ma possibile che i sex symbol siano sempre loro?”. Hanno l’età di tuo padre, di sicuro. Però, hanno anche l’età mia, sono tutti e due del ’63, mi sa. Sì, però per loro l’età non conta. Conta solo per me. In negativo, ovviamente.Quante ragazze, parlando, mi hanno specificato qual è l’età che deve avere il loro uomo, e quale differenza di età diviene letale per loro; però quante di loro parlano di Johnny Depp e di Brad Pitt, qualcuna di Robert Downey jr, come se fosse naturale fidanzarsi con loro, e come se loro fossero in pole position.Cara Anna, il bus sta divorando questa strada dritta senza neanche un marciapiede, e prima o poi arriverà la tua fermata. Mi piacerebbe chiederti se hai tempo di prendere un caffè con me. Ma c’è il caso che non ci sia neanche, un bar, in questo paese/striscia. E poi, non vorrei ritrovarmi nel Gazzettino con un titolo a effetto: “Preso il maniaco dei bus”. Quindi decido di non dirti niente, di non proporti quel caffè. Scendo alla mia fermata, e non ti vedrò più. Mi dici ciao, mi guardi negli occhi e mi lasci una buona versione del tuo sorriso. Mi basterà, per tutto il pomeriggio e forse anche di più.Scendo nel nulla, ai confini della realtà. A lato della strada c’è uno spazio fra due case, non la chiamerei una via. Ma mi ci infilo, e trovo un dedalo di casette dipinte a colori pastello. Non c’è una strada, ci sono gli angoli delle case che fanno delle specie di camminamenti. Un bambino gioca con una biciclettina minuscola. Panni stesi. La chiesa, ovviamente, è chiusa. Ma mi volto, e di fronte a me c’è la laguna. Bellissima. E in un angolo, un cartello: “Livello dell’alluvione il 4 novembre 1966”.7. L’alluvioneL’alluvione, qui l’hanno avuta lo stesso giorno in cui l’Arno ha quasi ucciso Firenze. E quella linea, quella lapide, è uguale a quelle che ho visto tante volte a Firenze.Chissà com’è stato, quando l’acqua ha investito questa striscia fra la laguna e il mare. Avrà rovesciato tutto, tutte le case di Pellestrina diventate isole nel mare.Invece io ho sete. No, non ho sete di una Coca cola, o di succo d’arancia, o di vino, o di birra. Ho sete di quello che non ho visto, che non ho visto neanche da lontano. La vita. Ho sete della vita, ho sete del viaggio che non ho fatto.Certo, non l’ho lasciata scorrere, la vita. Non ho accettato che i giorni fossero quello che sono, cioè poco più di niente, non ho accettato che i pomeriggi fossero normali, come lo accettano i cani e i gabbiani qui davanti, alla ricerca solo di qualcosa da mangiare, ma non di conoscenze, di illuminazioni, di musica speciale. I gabbiani non cercano una musica speciale, i cani non sono tristi se non hanno visto l’Islanda. I cani si addormentano, e a volte sono persino felici.Non mi sono mai lasciato andare all’umore dei giorni, solo quando ero bambino ero tranquillo nella mia periferia, adesso no, adesso vorrei essere ogni giorno dappertutto, adesso vorrei che una donna bellissima mi entrasse nel naso, nei polmoni, nell’anima a portarmi la salvezza, e questa donna non c’è mai, non la vedo mai in fondo alla laguna, oltre la palafitta.E così, tornerò a casa mia, a guardare ogni giorno la tv. A non riuscire ad alzarmi dal letto la mattina, a pulire le ragnatele di una stanza vuota che è il mio tempo, a pulire le ragnatele di una stanza piena di libri e di appunti di storie che non ho mai scritto, che è il mio tempo. Ad inciampare nella mia ombra, a camminare per giardini d’inverno.Non c’è più niente che mi leghi alla vita, c’è un’assenza in forma di persona.8. Io sono LiEppure ho provato a vivere, ho fatto di tutto per vivere, per creare, per comunicare, per costruire, per gioire, per amare. O provato a suonare, ho provato ad amare. E adesso non ce la faccio più, ho provato a correre con tutto il fiato che avevo, ma tutti mi hanno superato, e mi ritrovo ultimo, gli altri concorrenti chissà dove sono, io sono in questa domenica pomeriggio, davanti a questa laguna desolata, senza onde, con un mare piatto come un lago, con nel mezzo una capanna di legno. Una laguna grande come uno specchio.Leggo sul telefono che nel punto più stretto questa isola dove sono è larga 23 metri. Ventitré. Un niente. Chi vive qui è schiacciato fra la laguna e il mare. Cammino davanti alla laguna, e guardo le palafitte. Sembrano uccelli posati sull’acqua, con le loro esili zampette di legno. Uccelli preistorici, uccelli vinti. Sembrano zattere sfasciate, scampate a un naufragio. Ma chi ci sarà lì dentro?Mi ricordo un film in cui c’era Rade Serbedzja, quell’attore serbo bravo che aveva recitato anche con Kubrick, e che stava in una palafitta. “Io sono Li”, si chiama quel film. Uno dei più bei film che ho visto negli ultimi dieci anni. Devono averlo girato da queste parti, forse a Chioggia, che è ancora più giù, un po’ più a sud, in questo pezzo di Adriatico piatto come un pavimento lavato con la candeggina. Un gabbiano, ritto su un palo di legno, sorveglia il nulla.Continuo a camminare. In questo mondo lineare. Un piccolo marciapiede, a sinistra la laguna, e a destra solo lo spazio per una casa, poi la strada, poi il mare aperto. Un paese che è come un binario di ferrovia sospeso sull’acqua. Un paese millepiedi, un paese sul quale cammino come Lalinea di Lagostina, quel Carosello che vedevo quando ero bambino.È quasi sera. Le nuvole scintillano sul mare. E mentre il sole va giù, torna qualche goccia di pioggia. Sempre più forte. Acqua che pulisce questo pomeriggio che nessuno conosce, che non posso raccontare a nessuno. Il gabbiano, sentinella del nulla, è ancora lì. Io vado ad aspettare l’autobus, che arriva già con i fari accesi.
