OGGI SAREBBE STATO IL COMPLEANNO DI AGOSTINO STRAULINO
Oggi sarebbe stato il compleanno di Agostino Straulino. Io voglio ricordarlo così.Le mani grandi, nodose come rami di un vecchio ulivo. Il corpo curvo eppure ancora poderoso, con le tracce di una fierezza mai sopita. E gli occhi. Piccoli, quasi spenti ormai, eppure capaci di insopprimibili guizzi di ironia. Agostino Straulino me lo ricordo così, ormai vicino alla fine del suo cammino, e pure ancora curioso della vita. Se ne stava lì sulla banchina con il suo amico Mario Di Giovanni, una specie di fratello più giovane che se ne sarebbe andato prima di lui. E parevano davvero fratelli, con quegli sguardi chiari e quei nasi grandi, i capelli pettinati come nessuno usa più, il morbido accento delle nostre parti. Parlavamo di barche, naturalmente. Loro parlavano, io ascoltavo intimorito e ammirato.Prima di incontrarlo, avevo sempre pensato a quante cose mi legavano a lui. La terra, che era la stessa. La famiglia, fatta di gente di mare. Quell’Adriatico che era la prima acqua conosciuta e amata. E le isole, i cibi, il dialetto che non avevamo mai abbandonato, la nostalgia per le cose perdute. Per me perdute prima ancora di averle conosciute, perché io ero il primo nato “di qua”, sull’altra sponda. Per questo mi avevano chiamato Giuliano.Quando mi avevano chiesto di scrivere di lui, avevo avuto paura. Cosa potevo raccontare io, marinaio della domenica, di una leggenda come lui? Mi ero immerso nella sua vita in punta di piedi, avevo visto la sua casa e mi ero quasi commosso vedendone la sobrietà, e riconoscendola come una cosa che apparteneva anche a me, alla mia famiglia.Poi avevo cominciato a parlare con quelli che lo avevano conosciuto davvero, che avevano navigato con lui, giocato con lui, esplorato con lui. Quelli che magari avevano conosciuto la sua asciutta severità, e non ne avevano sofferto. Perché avevano scoperto che la usava anche con se stesso. Tutti assieme avevano costruito il ritratto di un uomo non facile, taciturno e a volte anche duro. Uno che non insegnava niente con le parole, ma che semplicemente sapeva mostrare “come” fare le cose. Un uomo competitivo, che amava vincere. Ma che più di ogni altra cosa amava il mare. Amava annusarlo, accarezzarlo, solcarlo, guardarlo. Mai sfidarlo. Lo aveva fatto da ragazzo, e aveva imparato che no, non si deve. Che è inutile e sciocco. Chissà se qualche volta ne aveva avuto paura anche lui. Mi sarebbe tanto piaciuto chiederglielo.
