REPORTER DI GUERRA: UN MESTIERE DA FREELANCE, TRA RISCHI E BASSI COMPENSI
Rischiano la vita nelle zone calde del pianeta. Raccontano la guerra, i colpi di stato, le repressioni dei regimi dittatoriali. Ma quasi tutti lavorano come freelance, perché i giornali sono sempre meno disposti a usare i propri dipendenti, compresi quelli con la qualifica di inviati speciali, per questo tipo di incarichi. Un po’ perché tutto quello che avviene fuori dall’Europa nemmeno esiste per la maggior parte dei quotidiani italiani. Un po’ per non sobbarcarsi le spese di viaggio, trasferta, assicurazione e sicurezza. Un po’ per la convinzione che – per documentare fatti come le manifestazioni in Iran o gli scontri in Venezuela – basti ripubblicare in modo acritico ciò che hanno già postato le reti sociali.Così, a fare i reporter di guerra restano solo i freelance. Che partono, si organizzano in autonomia, magari lavorano in tandem con un fotografo e al ritorno offrono al giornale un servizio “chiavi in mano”. Risparmiando all’editore le spese vive e pure il dovere etico di tutelarli.Un paradosso, nel panorama giornalistico italiano, nel quale i giornalisti assunti sono costretti a occuparsi di gallery di gattini e video amatoriali, mentre i freelance – che tanti colleghi considerano ancora “quelli che non ce l’hanno fatta” – raccontano le uniche storie che varrebbe la pena ascoltare. Storie che ci permettono di capire, per esempio, perché i flussi migratori dall’Africa saranno sempre più inarrestabili, se non si interviene per frenare gli squilibri tra Nord e Sud del mondo. Storie che mostrano fuori dagli stereotipi le lotte delle femministe arabe o delle donne dell’Africa subsahariana che rifiutano la pratica dell’infibulazione. Storie che mostrano la faccia feroce del neoliberismo in America Latina e di quei governi percepiti come tanto rassicuranti dagli stati occidentali.Emanuela Zuccalà è una di loro. Vincitrice nel 2012 delPress Freedom Award(Premio per la libertà di stampa) di Reporter senza frontiere per un’inchiesta sulle sparizioni forzate delle donne nel Sahara Occidentale. Il suo documentario “Uncut” (non tagliata, integra), dedicato al fenomeno delle mutilazioni genitali femminili, in collaborazione con la collega Simona Ghizzoni, ha ricevuto ben 15 premi giornalistici e cinematografici.“Se inviati e corrispondenti sono sempre meno” dice Emanuela “è un dato di fatto che il nostro lavoro di freelance diventa indispensabile. Per necessità, siamo i più disposti a riprofessionalizzarci, a imparare a produrre contenuti multimediali innovativi che aiutano a costruire un nuovo rapporto con il lettore”.Non sempre i giornali lo capiscono e valorizzano queste competenze. “I compensi sono al limite del volontariato” dice Emanuela. “È un problema strutturale, non se ne esce. Così cerco di andare oltre il singolo articolo e lavorare su progetti diffusi con un team di altri freelance: fotografi, web-designer, producer, video-maker. Scrivo serie di articoli su un argomento da cui poi creare un web-doc, un documentario, eventi-conferenze, mostre fotografiche, il tutto prodotto in più lingue e più paesi”. Si ottimizza il lavoro, si fa squadra e si riesce a non dipendere soltanto dal mondo dei giornali. “In questo modo i finanziamenti” osserva Emanuela “arrivano da grant, fondazioni, organizzazioni internazionali”.Non che lo spazio sui media tradizionali manchi. Le versioni online dei quotidiani sono alla ricerca spasmodica di contenuti. E ci sarebbero anche i lettori interessati alle storie dal mondo. “Il problema” continua Emanuela “è che le testate dovrebbero crederci di più, promuovendo sui social, per esempio, non solo le news frivole-clickbait, ma anche i reportage e le inchieste serie”. La foto fa parte del progetto “Uncut” (www.zona.org/it/progetti/uncut/) ed è di Simona Ghizzoni.
