I GIORNALI, I SOCIAL, I GIUSTIZIERI CHE DORMONO IN NOI

Non è un post natalizio, non del tutto.Nella strada dove abito c’è un Mercatino: sì, è lo stesso dove ho ambientato un racconto, lo stesso dove ho comprato, per soli due euro, due cristalli che non servono a nulla, lo stesso dove qualche volta gironzolo. Per molti è un vizio neanche troppo segreto, andare al mercatino, anche solo per guardare i mobili, interrogarsi su chi li ha portati là, e perché. Ieri mattina una signora andava al Mercatino. So esattamente il punto dove ha attraversato la strada, perché lo faccio anche io. Non ci sono strisce pedonali, e ci sono le automobili che vengono dalla Tiburtina, e corrono parecchio, perché nella mia strada si corre, e le strisce pedonali sono poche, e molto spesso, quasi sempre, per non farsi mezzo chilometro cercando le strisce, si attraversa comunque, senza riflettere troppo su quanto si è visibili. Lo faccio quasi ogni giorno, ammetto. Ieri mattina quella signora, che aveva 79 anni, è stata investita da un’automobile guidata da un quasi coetaneo. E’ morta prima di raggiungere il mercatino. I giornali hanno raccontato questa storia in poche righe, a corredo dell’altra, terribile storia, quella delle due ragazzine investite da un altro ragazzino, cui stanno dedicando da giorni articoli strillati e titoli di fuoco. Ora, so bene quello che sta accadendo sui social sulla seconda vicenda: un tristissimo, miserabile schieramento dove ci si chiede chi sia più colpevole, se le ragazzine morte che hanno attraversato col verde per le automobili in un punto proibito o il ragazzino che aveva bevuto e fumato canne. Qualcosa che fa venire i brividi di orrore, che fa venir voglia di scappare dai social. Perché, come dicono i Wu Ming indue splendidi articolidove motivano il loro congedo da Twitter: «C’è chi ha detto che un social network come Twitter è solo lo specchio della società. La metafora ci sembra inappropriata: uno specchio non accelera la tendenza all’entropia della realtà che riflette. Con la sua forsennata, ansiogena pulsione all’immediatezza degli scambi, un mezzo come Twitter, se usato assecondandone in toto la logica anziché contrastandola con l’autodisciplina e la creatività, diventapeggiorativodella realtà che trova, ne amplifica i tratti più retrivi. Se la parola fugge in avanti prima che si formi il pensiero, se quel che conta è l’iper-velocità nel rispondere, fatalmente si tira fuori il peggio.» Ma non è solo un problema di social. Stamattina leggevo suRepubblicala rubrica di Luca Bottura, che si narra sgomento dalla reazione di Facebook su quanto è avvenuto. Dicendo però che, appresa la notizia, ha immaginato che sarebbe diventata un “filone giornalistico”, aggiungendo che era “normale”. In queste ore ho visto scie di sangue negli articoli che sono stati scritti. Ho letto incitamenti più o meno velati alla giustizia social, ho letto titoli che non avevo mai letto su un caso che chiederebbe pietà, e dovrebbe invitare a stringerci tutti, a consolarci (come avvenne molti anni fa, un 16 dicembre, nel crollo di via Vigna Jacobini, dove morirono 27 persone, fra cui bambini che aspettavano il Natale, e chi aveva bambini piccoli, come me, pianse pensando a loro. Pianse, non invocò la forca). E di questa ignobile tifoseria social sono responsabili ANCHE, e forse in primo luogo, i giornali, on line e cartacei, che ragionano ormai solo in termini di clic e di posizionamento in rete, neanche fossero il social media manager di Taffo. Cheaizzano quella ferocia invece di placarla. Salvo poi scrivere “accidenti che brutta gente che c’è su Facebook e Twitter”. Ieri ne ha scritto un giornalista, Massimiliano Coccia di Radio Radicale, che non ha dimenticato cosa significhi essere persone, e persone che hanno la responsabilità pubblica delle proprie parole, e dunque sanno che devono comportarsi non solo secondo un’etica professionale, ma secondo un’etica sociale. Che devono per primi essere portatori di quell’essere in una comunità che accusano gli altri di aver dimenticato. Vale per la cronaca, vale per la politica, vale per tutto. E allora, che si fa, eh? Si resiste. Magari ci si tira fuori (ho sempre meno voglia di scrivere su un giornale, sinceramente), magari si sta in rete provando a usare altre parole. E ci si stringe, ripeto, in casi come questi, che non riguardano il pedone o l’automobilista che è in noi, e tanto meno il giustiziere che in noi viene chiamato a svegliarsi. Ci si stringe in quanto umani. Ci si fa compagni l’uno dell’altro, e non boia. Buon Natale, commentarium, nonostante tutto, e con, comunque, speranza.