LO SPARO
Giovanni Rimedio era un giovane con gli occhi azzurri assai mobili, ma i tratti del viso rigidi e imperturbabili. Non che questo significasse che le cose gli andavano bene. Era convinto, anzi, che molto di ciò che accade dipenda dalla fortuna e che di rado si metta spontaneamente per il verso giusto. Quel pomeriggio, ad esempio, sopportava stoicamente il caldo di un’estate arrivata in anticipo e sentiva sulla pelle l’umidità del vento di scirocco senza poterla distinguere dal sudore che gli colava dappertutto. Sudava di più proprio per quell’aria densa e appiccicosa in cui il mondo sembrava immerso. Giovanni, comunque, di questi aspetti non si curava granché. Quando faceva freddo si copriva con un cappotto nero che alto com’era lo smagriva, e col sopravvenire del caldo ben volentieri se ne stava in jeans e canottiera; la sera, tuttalpiù, con una camiciaccia grigia slacciata e la felpa buttata sulle spalle. Tornando a casa in motorino, nel pomeriggio, spandeva d’intorno la tosse catarrosa della marmitta. Ma lui si limitava a pensare – dopo essere stato tutto il giorno a tagliare ferraccio con la fiamma ossidrica – al pane strusciato col pomodoro che avrebbe preparato in quattro e quattr’otto, e a un paio di birre ghiacciate pronte nel freezer per essere scolate con gusto. Insomma: di trovare Birbo, il suo bel cagnolino fulvo, sanguinante e inchiodato sulla porta di casa, non se lo aspettava proprio. “Che bischero!” è probabile dicesse fra sè qualcuno di quei ragazzi che Giovanni adocchiò mentre correvano a rimpiattarsi dietro un muretto sbrecciato. “Rimedia un po’ questo…”.Al giovane veniva da piangere, ma siccome pensò che poteva essere ciò che si aspettavano gli ignobili nani, si limitò a prendere un grimaldello a coda di rondine dalla borsa degli attrezzi appesa dietro la sella del motorino, a schiodare delicatamente il cane e, utilizzando lo stesso attrezzo per scavare di fianco alla casa, lo seppellì in una buca poco profonda. Ora, però, il sudore era davvero troppo, mescolato alla polvere dello scavo, intriso nella trama della canottiera e tra i peli arruffati del petto. Così, prima di entrare nell’abitazione, aprì la valvola del serbatoio del cantiere vicino e si fece cadere addosso uno scroscio d’acqua che – pensò – forse gli avrebbe dato un po’ di sollievo. Si strofinò con vigore Giovanni Rimedio, senza togliersi i panni di dosso, passando più volte le dita tra i capelli per tirarli all’indietro e graffiando persino qualche lembo di pelle, ma la voglia di piangere non se ne voleva andare. Quando all’interno della sua casetta si spogliò per indossare abiti asciutti, non poté fare a meno di notare nella specchiera maculata d’un armadio roso dai tarli, gli occhi che si muovevano stralunati e lucidi. L’abitazione di Giovanni era davvero piccola, quasi una baracca, su un terreno che ancora non ospitava i palazzi anonimi che qua e là si stagliavano contro il cielo degradante verso il buio della sera. Dalle finestre del palazzo più accosto uscivano voci. Qualche mamma richiamava il figlio per la cena. Un rossino dall’aria sveglia, Beppe Tinzolla, prima di obbedire pensò bene di tirare un sasso verso la casetta. Si trattava di un ultimo spregio… così… tanto per concludere la giornata. Poi scappò a gambe levate. Giovanni vide il vetro della finestra che si rompeva e allora reagì. Con calma, ma reagì. Si vestì di tutto punto: vecchi pantaloni antracite, giacca nera un po’ sgualcita, scarpe marroni impolverate, la camiciaccia grigia e una cravatta amaranto che gli strozzava il collo. Controllò sulla specchiera quanto era in ordine e aprì il lucchetto di un baule collocato ai piedi del letto. Quel baule custodiva la felicità di quando, bambino, il papà lo aveva portato in padule per fargli sentire gli odori intensi che si alzavano dalle acque stagnanti al sorgere del sole e osservare il volo delle beccacce mentre spuntavano sullo sfondo delle nuvole basse: un Bernardelli calibro 12 con le canne nero-fumo e il calcio di faggio che Giovanni curava di tenere levigato e lustro. Quando la porta della famiglia Tinzolla si spalancò, colpita da una pedata, i padroni di casa rimasero basiti, seduti intorno al tavolo, con il cucchiaio sospeso per aria. Gli unici rumori venivano dal televisore con stridii di freni ed esplosioni che squarciavano lamiere e spappolavano corpi. Ma Giovanni non sentiva niente. Entrò nell’appartamento e frugò la stanza con lo sguardo. Beppe cominciò a frignare. La mamma dette segni di svenimento. Il televisore continuò a gracchiare inascoltato quei rumori sgraziati.“Porc…” borbottò il signor Tinzolla.Le canne della doppietta si spostarono sui commensali e, infine, con uno scarto improvviso mirarono al televisore e fecero fuoco: una dopo l’altra. Quando Giovanni vide che i frammenti dello schermo smettevano di cadere, raccolse l’arma nella piegatura del braccio, l’aprì come per infilarci altre cartucce, ma poi rinculò verso la porta e uscì. I lamenti e le imprecazioni lo rincorsero giù per le scale ma senza poterlo turbare. Quello che voleva fare lo aveva fatto. Aveva visto sul viso di quelle persone lo sconcerto che lui, da sempre, cercava di nascondere; lo sconcerto e il dolore che altri provocano, in un modo o nell’altro, con lo scherno e il disprezzo nei confonti di chi credono stupido. Tuttavia non per fare del male era arrivato lassù Giovanni Rimedio, e nemmeno per discutere, bensì perché si sforzassero di capire, almeno nella famiglia di Beppe Tinzolla, quello che lui a voce non poteva e non riusciva ad esprimere.“Del resto” pensò, “cos’altro può fare uno che le parole e i suoni per comunicare non li ha mai conosciuti… cos’altro può fare un sordomuto incazzato?!”.
