LO STORYTELLING DI TRUMP CHE HA PORTATO GLI ELETTORI A VOTARLO
C’è tanta gente che alla parola “storytelling” si precipita a scrivere, via sms o commento, che non se ne può più e che noia e basta. Peccato. Perché per inflazionata che sia questa – chiamatela narrazione se proprio vi viene la tachicardia davanti al termine inglese, però poi piantatela con le fisime, che si sta parlando di sostanza e non di forma – è una questione chiave.Lo storytelling di Trump ha portato gli elettori americani a votarlo. E adesso, magari, non pochi si stanno mangiando le mani. Forse. Perché io credo che abbia molta ragione Franco Berardi quando scrisse, fra l’altro:“Trump insulta una donna, un disabile, un militare americano morto ma musulmano, un eroe di guerra ferito dai vietcong? Bene, io voto per lui.Trump ha evaso le tasse da sempre, ha fatto lavorare immigrati e non li ha pagati? Bene, è la ragione per cui voto per lui.Trump è un uomo del Ku Klux Klan, un assassino potenziale, un ignorante spaventoso? Bene, assomiglia a me e lo voto”.Questa è la narrazione che è passata. E per quanto io continui a pensare a Greg Stillson e alla fine che fa (non cruenta, tranquilli) ne “La zona morta”, auspicandone una analoga per Trump e gli auspicati uomini forti del pianeta, so bene che quello è un romanzo e questa la realtà. E nel mio piccolissimo non posso che dire: attenti a come le storie vengono raccontate, a come filtrano, a come vengono diffuse, ai modi, ai toni, alla seduzione delle parole.Anche nella narrazione del terremoto, sapete? Perché le sfumature sono infinite e la realtà, diversificata, certo, una: non si sta facendo nulla. Lo stanno facendo i singoli, volontari, residenti, simpatizzanti, militanti. Ma non c’è ancora nulla: non una decisione, niente. In tre anni. In attesa che il tempo passi, e magari i tempi collassino uno sull’altro, facendo uscire un uomo forte che cammina e calpesta, visto che il nome sulla fronte glielo avete pur scritto, in tutto questo tempo.
