LETTERE DA UNA CITTÀ CHIUSA 2. AMBROGINO DI BRONZO
Scrivo di notte, stavolta. Il condominio è avvolto dal silenzio della notte, come ogni notte. Sono solo. Ma non come un cane. Sono solo con un cane -cosa molto diversa- che prima mi ha guardato e poi è tornato a sonnecchiare sul divano. Non so quanti altri appartamenti siano pieni e quanti vuoti, e del resto non si può neanche parlare di famiglie: un po’ di single, due anziani malati, due appartamenti di studenti, una sola famiglia con bambini. Non so se qualcuno se n’è andato, non so quanti siano rimasti. Comunque andrà, domattina, il censimento impreciso dei rumori, dell’attesa dell’ascensore e persino, all’ora di pranzo, dei profumi, non voglio fare categorie morali: ognuno ha le sue buone ragioni, ognuno di noi ha i suoi buoni torti. Ogni tragedia mette a nudo il popolo che la attraversa. E quello che è successo ieri, l’assalto ai treni e alle autostrade, la fuga da Milano, aiutata dalla disastrosa comunicazione di un decreto, è comprensibile, ma ingiusto. Da questa guerra usciamo solo bloccando il contagio. E lo si può fare solo evitando di muoversi. Quanti milanesi hanno lasciato Milano, ieri ? Non lo so, ma hanno messo a rischio i loro rifugi, le case dei parenti, gli alberghi, i vicini delle seconde case. E’ la stessa città che si preoccupava per l’isolamento dei cinesi, la stessa metropoli che si faceva descrivere, orgogliosa, “Milano riparte” ? Sì, è la stessa (non ho mai creduto a uno degli slogan della politica: qui, in questa piazza c’è l’Italia migliore). Ognuno di noi ha dentro di sé il bene e il male, il coraggio e la vigliaccheria, la solidarietà e l’egoismo. Dipende dai momenti, dai fatti, dalle prove: l’altro ieri in Lombardia ci sono stati 113 morti in 24 ore. Non è facile restare lucidi, e non ho nessun podio morale da cui impartire lezioni. Sono scappato un sacco di volte, in guerra, ho corso nelle strade battute dai cecchini, altre volte non ho avuto coraggio di attraversare. Ho tremato e bevuto per vincere la paura, ho pregato e maledetto il momento che avevo deciso di ficcarmi in quella situazione, ho pianto sul dolore degli altri, e nascosto la voglia di andare via, io che potevo farlo. Ma una cosa mi ha consentito di cavarmela, oltre alla fortuna, e credo lo possano raccontare quelli che erano con me: tenere la mente lucida, prevedere quello che può succedere, non escludere il peggio, ragionare. E anche non lasciare nessuno indietro, come dicono i fratelli in armi. Qui è stato un 8 settembre meneghino, e non ci fa onore. E se poi il contagio dilaga nei rifugi di chi se n’è andato, magari mentre Milano tira un sospiro di sollievo, esce dall’incubo, e le zone rosse si spostano nei luoghi dell’esodo, che fanno ? Riscappano da questa parte, pendolari della paura ? Li capisco: sono stato tentato anch’io di farlo.UN CONSIGLIO DI FAMIGLIAUn consiglio di famiglia – una famiglia in cui io sono il fragile, perché immunodepresso e vecchio – mi ha affettuosamente suggerito di andarmene, perché, senza che me lo dicessero, non sono di grande aiuto e posso diventare un peso. Mi hanno aiutato a prenotare un’auto per tornarmene nel mio Friuli, contando sul fatto che un tesserino di giornalista e una lunga storia di posti di blocco evitati mi avrebbe aiutato a farlo. Sono andato all’autonoleggio, e l’impiegata mi ha raccontato dell’assalto della notte. Ho pensato a un incontro che non ho visto, domenica mattina, nel territorio neutro dell’Idroscalo, tra la mia nipotina e suo papà: credo che lei non lo vedesse da una settimana, o più : è medico in terapia intensiva. Si sono guardati da lontano, senza sfiorarsi. Mia figlia mi ha detto che forse è meglio se davanti alla bambina ci mettiamo tutti le mascherine, così si abitua, e non trova troppo strano quel padre, quando potrà rivederlo.Ho pensato di non essere io quello fragile, e ho deciso di restare. Ho noleggiato l’auto, per sentirmi libero di farlo in qualunque momento, e per girare come con uno scafandro la città che non avevo mai sentito così mia fino a quel momento. E ho posteggiato sotto casa, sperando che i vigili abbiano altro cui pensare. Ci sono abituato: è una piccola Sarajevo senza gloria, questa, è solo un posto dove le ambulanze non arrivano più sotto casa in quindici minuti ma in più di un’ora: hanno troppo da fare.Però ho una piccola, balzana proposta da fare al sindaco Sala. Il prossimo 7 dicembre riunisca tutta la città a San Siro o in un posto più grande. Siamo gente che non ha ascoltato i nostri vecchi, che non sa che cos’è una guerra, e forse per questo immaginava fuggito da una guerra chiunque cercasse solo un futuro migliore. Siamo gente che ha pensato di essere street fighter con un tatuaggio, o una rissa in discoteca. Siamo gente che non poteva non essere promossa e non poteva fare compiti troppo gravosi. Siamo gente che predica la solidarietà e accumula seconde case, che ama la globalizzazione e paga un filippino che gli pulisca casa. Diciamo prima gli italiani, ma intendiamo dire prima noi stessi. Scambiamo le appartenenze politiche per ideali, e le liti da reality per passioni: ci colleghiamo con la Casa, quanti milanesi se ne sono andati ? Siamo gente che pensa che resistere sia far finta di niente, aperitivi o mostre.UNA PROPOSTA PER SALAE dunque il sindaco Sala dovrebbe, il prossimo Sant’Ambrogio, dare un simbolico ambrogino. Di latta o di bronzo, a tutti quelli restati, per amore, per forza, per dovere, per pigrizia, perché non avevano dove andare, perché non hanno avuto il tempo di decidere. E’ ovvio, prima i medici e gli infermieri, gente cui abbiamo lasciato il terribile compito di decidere chi salvare e chi non ce la facciamo. Poi gli altri, tutti quelli restati in una città senza rumore, come se avesse messo le pantofole dei vecchi, addio a scarpe da jogging e tacchi, suole da manager o anfibi da rapper. Tutti quelli che non sapevano dove andare, e sono andati a dormire. Tutti quelli che avranno superato un virus che in fondo era poco più di un’influenza. Tutte le mamme e i papà, e i single. Tutti gli anziani, e specie quelli soli, e specie quelli che sanno che troveranno il tutto occupato in sala di terapia, non si prenota come usava nei ristoranti ora vuoti e chiusi. Premiati con quella onorificenza che io ho ricevuto e non è bastata a farmi sentire milanese, allora. Ho dovuto aspettare un virus, per accorgermi di esserlo diventato. Premiati non perché abbiano fatto qualcosa di speciale. Solo perché non hanno fatto associare, in giro per l’Italia, la parola “milanese” al sospetto, al fastidio, alla preoccupazione, al ganassa invadente.Ieri mattina sull’Idroscalo splendeva un sole prepotente, incurante degli umori. Da Linate, lì a fianco, decollava un’aereo all’ora, o meno. Il cielo era lucido, e la trasparenza rivelava l’arco delle montagne. E’ un paradosso struggente che nella Milano con l’aria migliorata si possa morire perché manca l’ossigeno.
