BUONGIORNO UN CORNO!, GIOVEDI’ 26, RITORNO AL PASSATO …
Era esattamente un 26 marzo, quello del 1956, quando il dottor Jonas Salk annunciò la scoperta del vaccino antipolio. E’ curioso che la ricorrenza passi inosservata mentre il mondo intero aspetta un vaccino in questo momento ben più importante e urgente, quello contro il coronavirus. Proviamo allora a sviluppare un breve ragionamento non tanto dal punto di vista scientifico, non ne siamo in grado e non vogliamo far parte dei virologi da social che parlano di cose di cui non sanno assolutamente nulla, ottenendo come effetto la diffusione del virus della stupidità che estende il panico a dismisura. Parliamo invece del rapporto tra l’uno e il tutto, tra la singola persona e la totalità degli abitanti del mondo, tra la nostra aspettativa di vita e la realtà. In questi giorni a spaventarci è proprio il senso di fragilità delle nostre esistenze, l’infrangersi dei nostri progetti contrariamente alla volontà con cui li abbiamo elaborati e faticosamente tentato di metterli in atto. Anche per cose meno importanti, per esempio una vacanza desiderata a lungo e per cui sono stati faticosamente messi da parte dei risparmi, che oggi diventa irrealizzabile, come per quelle fondamentali, un esempio può essere l’inizio di una nuova attività lavorativa, che adesso dovremo rinviare non si sa per quanto e se con le stesse basi solide. Perché le nostre singole azioni individuali sono da sempre subordinate a quelle di tutto il genere umano, anche se ce ne rendiamo conto soltanto in questi frangenti, ed è un tipo di riflessione che appartiene alla politica. E’ giusto tutto ciò? L’infezione da poliomielite nasce nella preistoria, ce lo raccontano dei reperti egizi che risalgono al 1200 a.C.,ma in forma di epidemia la conosciamo soltanto dal diciannovesimo secolo. Il picco fu negli anni tra il 1940 e il 1950, arrivando a uccidere o paralizzare oltre mezzo milione di persone l’anno. L’importanza degli studi sulla poliomielite vanno oltre la sola malattia, perché Albert Sabin rivelò con le sue ricerche numerose caratteristiche epidemiologiche della malattia in rapporto al tenore socio-economico e al regime igienico delle popolazioni, in sostanza esaminò l’evoluzione del virus in relazione all’evoluzione sociale, un aspetto che oggi riguarda anche le forme di virus derivate dal ceppo della Sars. Nel secondo dopoguerra l’opinione pubblica fu sensibilizzata alla raccolta di fondi, che si rivelarono indispensabili per lo sviluppo della ricerca sulla poliomielite e per la realizzazione del vaccino. Non è secondario notare che un impulso forte alla ricerca venne dal fatto che il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt fosse affetto dalla poliomielite che lo aveva reso paraplegico. I virus della poliomielite si dimostrarono diffusi in tutto il mondo specie nei paesi industrializzati. Come ricordato sopra, soltanto nel 1956 si arrivò a trovare un vaccino, ma con un limite, perché essendo basato sull’iniezione negli esseri umani di un virus “morto”, garantiva un’immunità individuale consentendo al virus di persistere nell’ambiente e di essere trasmesso con le feci dai portatori sani, perché, data la sua natura, non c’era nessuna possibilità che un virus ucciso e iniettato potesse andare a competere a livello ambientale col virus selvaggio. Fu Albert Sabin a ottenere un vaccino basato sul virus attivo, capace di spiazzare i virus patogeni sostituendosi ad essi. Lo sperimentò innanzitutto su se stesso e ne dimostrò l’efficacia in una campagna di vaccinazione di massa nel Chiapas, in Messico. Da allora in poi, qui riassumiamo per ovvi motivi, il percorso fu più complesso, il vaccino fu diffuso in tutto il mondo e reso obbligatorio. Nel 2002 l’Italia, venne dichiarata “Polio-Free” insieme al resto dell’Europa Occidentale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma il virus resiste in alcune parti del mondo. A rendere più importante ancora il vaccino contro la polio è il fatto che a oggi non esistono farmaci specifici per curare la poliomielite, quindi in questo caso la cura è stata la prevenzione. Capite adesso perché vi ho voluto raccontare oggi questa storia dolorosa seppur dimenticata. I reparti di terapia intensiva hanno avuto la loro origine nella lotta contro la polio. I principali ospedali non avevano la necessaria disponibilità di polmoni di acciaio per i pazienti non in grado di respirare autonomamente. Per arrivare a questo risultato, negli anni precedenti ai vaccini di Salk e Sabin ci furono molti morti. Negli anni 30 venne sperimentato un altro vaccino, prodotto da due studiosi statunitensi, Brodie e Kolmer, ma la somministrazione dello stesso causò decessi e questo portò alla sospensione di qualsiasi ricerca ufficiale sul vaccino antipolio. Naturalmente senza quel fallimento e quei morti non avremmo avuto successivamente il vaccino che ha poi quasi debellato la poliomielite. Il punto è che l’umanità ritiene quelle morti utili per il progresso. L’altro punto è che se toccasse a noi morire o a un nostro familiare o persona cara saremmo incazzati neri contro la scienza e per niente disponibili a considerarlo un sacrificio necessario. Io ritengo giuste e motivate entrambe le considerazioni, ma senza via d’uscita. Soprattutto perché in questi giorni si ripropone spesso negli ospedali la considerazione su chi ha diritto a vivere e chi deve morire dinanzi all’ondata di Covid 19. Gli anziani sono la parte ritenuta sacrificabile dell’umanità e questo non è accettabile nella nostra civiltà e cultura. Insieme a queste due certezze ne ho comunque una terza, che probabilmente deriva dal mio non credere in un essere superiore che determina le nostre vite e il nostro destino: non possiamo fare assolutamente niente al momento, probabilmente non potremo mai, per ribaltare questa situazione. Possiamo aumentare i posti letto, possiamo anticipare e prevenire gli interventi sanitari, ma non azzereremo mai del tutto la mortalità. Ci sarà sempre qualcuno che muore per qualcosa da cui altri sono guariti per i più disparati motivi. E la nostra società dovrà sempre fare i conti con quella singola persona e il dolore che scaturisce dall’azzeramento della sua storia umana, dei suoi affetti, del suo valore per gli altri. E’ una condizione di scacco dell’umanità a cui la scienza non potrà porre mai rimedio, neanche dispiegando la totalità delle risorse disponibili per predisporre prevenzione e cura. Per questo motivo la morte di chiunque di noi ci riguarda tutti e ci fa morire un po’ tutti comunque pur sopravvivendo individualmente . L’umanità si strugge da millenni su questi drammatici interrogativi senza trovare risposte o alleviamento della sofferenza. Il coronavirus ci ha improvvisamente rimessi dinanzi alle domande sulla vita che già i greci tentavano di affrontare duemilacinquecento anni fa. Nel nostro rapporto con il dolore troveremo soltanto risposte valide per tutti collettivamente ma mai per noi individualmente.
